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InterCultura

InterCultura

REGALARE AI NOSTRI RAGAZZI L’INTERCULTURA

Ho iniziato la mia esperienza da Direttore Didattico, dal ‘96 al ‘98 a Moena, in Val di Fassa.
Alla fine di quei primi due anni di esperienza mi è stato chiesto di indicare quale regalo avrei fatto, se mi fosse stato possibile, ai bimbi e alle bimbe con cui avevo lavorato.
Mi venne spontaneo pensare all’idea del viaggio.
A quegli allievi, che oggi hanno dai 18 ai 23 anni, avrei regalato un viaggio per il mondo.
Un viaggio alla scoperta di altri popoli, di altre scuole, di altri ambienti naturali, di altri modi di vivere, di altre abitudini, di altri sapori, di altri odori… diversi da quelli che loro vivevano nella più “ladina” delle valli trentine.
Tutto ciò che è altro dal mio pur amato “piccolo mondo” mi aiuta in quella operazione che da un po’ di anni, nelle nostre scuole , noi chiamiamo educazione alla intercultura. Ma questa operazione, prima che con i nostri allievi, dovremmo farla noi adulti: insegnanti e dirigenti scolastici.

La fase del silenzio
A 50 anni appena compiuti mi sono regalato questa esperienza, e da poco più di un mese, mi ritrovo dall’altra parte dell’emisfero a fare il dirigente scolastico nel cuore del Brasile, a Belo Horizonte, in Minas Gerais.
Avevo già vissuto 25 anni fa l’arrivo in America Latina, a Lima in Perù, senza conoscere una parola di spagnolo o meglio “castigliano”.
Oggi mi sono ritrovato in Brasile senza conoscere una parola della lingua usata qui, cioè senza parlare, leggere o scrivere in portoghese (sem falar… ler… escrever… português).
E così da quasi due mesi vivo in prima persona quella “fase di silenzio” in cui, chiunque arriva in un luogo dove si parla una lingua diversa dalla propria lingua madre, immagazzina dati attraverso l’ascolto e la comprensione.
È una fase in cui non si desidera essere sollecitati più di tanto, in cui si vuole scoprire senza forzatura… semplicemente rispettando il silenzio.
E in cui vorremmo sempre essere compresi e accettati nei nostri errori.
In questo fase si è particolarmente ipersensibili, come – ad esempio – al fatto che un portiere d’albergo, un addetto della dogana, un negoziante o una commessa commentino la tua incapacità di parlare la loro lingua, con sorrisini o allusioni o vere e proprie “prese in giro” del tuo handicap.
Ecco ciò che vivono i ragazzini stranieri quando arrivano nelle nostre città e sbarcano nelle nostre classi.
Questo è quello che dovrebbero provare gli insegnanti italiani prima di fare l’esperienza di inserimento di alunni stranieri nelle proprie classi: vivere il senso di smarrimento, di incapacità a comunicare, di farsi capire.

Altri odori, altri sapori
Ma non è solo questione di lingua.
Pensiamo agli odori dei luoghi e delle città, ai sapori dei cibi.
Il cibo è sicuramente una di quelle cose che maggiormente ci mettono a confronto con le culture “altre”.
Il pane, il vino, le portate di primo, secondo, contorno, dolci e frutta.
Ed invece ti ritrovi in una realtà in cui il pane (come l’olio di oliva) è un bene di lusso e quotidianamente non viene consumato, il vino non esiste o è extralusso, il cibo viene servito in un piatto unico, mischiando riso, pasta (generalmente stracotta), un po’ di carne, un po’ di fagioli e così via.
E poi dove mai noi, nella nostra Italia, abbiamo comprato un pasto “a peso”?
Qui a mezzogiorno usa così: passi in una sorta di self service, prendi quello che vuoi (verdura, filetto, fagioli, riso…) e poi metti sulla bilancia, per sapere quanto ti costa.
E se chiedi una birra arriva il cameriere con la bottiglia e – in qualsiasi trattoria o ristorante – ti versa nel bicchiere la quantità di birra che lui ritiene opportuno.
Io che sono abituato a versarmela da solo e per la quantità che desidero!
Ma in compenso, dopo aver pagato, prima di uscire, ti attende un grande termos con del buon caffè brasiliano… offerto dalla casa, nella quantità che uno desidera.
E le sigarette: qui oltre alle tradizionali (standard in tutto il mondo) trovi i “cigarros de palha”, sigarette realizzate artigianalmente con, al posto della carta, una foglia di miglio.
Mi sono chiesto per giorni come si fa a fare delle foglie così grandi col miglio.
Poi scopro che il “miglio” o “miglio verde” è il nostro “granoturco”. Potenza delle parole che si pronunciano alla stessa maniera e che hanno significati diversi nelle diverse lingue.
Dobbiamo vivere l’esperienza di “essere stranieri in terra straniera” per capire bene cos’è l’intercultura. Fine della prima puntata.

Belo Horizonte 21 ottobre 2008