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Per una scuola lenta e nonviolenta

Tratto da LA PEDAGOGIA DELLA LUMACA
28 novembre 2008 di zavallonigianfranco

A scuola di lentezza. In questi tempi è di gran moda, nelle case di campagna riabitate dai cittadini,  avere un ulivo secolare in giardino. Peccato che dove oggi si costruiscono ville, un tempo non c’erano uliveti. Se si piantassero piccole pianticelle di ulivo ci vorrebbero anni per avere una bella pianta. Allora esistono ditte specializzate che espiantano ulivi secolari e li ripiantono anche a pochi metri dalla porta di casa. Nessuno ha più il tempo di attendere? Oggi si vuole tutto velocemente. Grazie alla televisone prima, e alle reti telematiche ora, è di gran voga la somministrazione di notizie “in tempo reale”, “in diretta”. Si è cioè convinti di potere di più se si è “in rete” con tutto il mondo attraverso un computer, un telefono o un monitor. A cosa serve tutto questo? Spesso non si sa. Si sa solo di essere collegati con tutto il mondo. Forse si ottiene un grande senso di sicurezza, di protezione, rispetto alla sensazione di “esser soli”. Si vive con il mito incalzante del tempo reale e si sta perdendo la capacità di saper attendere. Chi ha più il tempo di aspettare l’arrivo di una lettera? Oggi è possibile alzare la cornetta e sentire la persona con cui si vuol comunicare in pochi secondi. Che vantaggio c’è nello scrivere delle lettere? Se tutto va per il giusto verso c’è da attendere una settimana. Molto meglio il telefono, la posta elettronica, la chat. Alcuni anni fa, quando ancora non esisteva Internet, Jeremy Rifkin ci ricordava che “… la razza umana si è basata, nel corso della storia, su quattro dispositivi fondamentali di assegnazione del tempo: i rituali vitali, i calendari astronomici, le campane e gli orari, e ora i programmi dei calcolatori. Con l’introduzione di ogni nuovo dispositivo, la razza umana si è staccata sempre più dai ritmi biologici e fisici del pianeta. Siamo passati da una stretta partecipazione ai ritmi della natura all’isolamento pressoché totale dai ritmi della terra…”. Siamo nell’epoca del tempo senza attesa. Questo ha delle ripercussioni incredibili nel nostro modo di vivere. Non abbiamo più il tempo di attendere, non sappiamo partecipare a un incontro senza essere disturbati dal cellulare, vogliamo “tutto e subito” in tempo reale. Le teorie psicologiche sono concordi nel pensare che una delle differenze fra i bambini e gli adulti risieda nel fatto che i bambini vivono secondo il principio di piacere (“tutto e subito”), mentre gli adulti vivono secondo il principio di realtà (saper fare sacrifici oggi per godere poi domani). Mi sembra che oggi gli adulti, grazie anche alla società del consumismo esasperato, vivano esattamente come i bambini secondo le modalità del “voglio tutto e subito”. Sapremo ritrovare tempi naturali? Sapremo attendere una lettera? Sapremo piantare una ghianda o una castagna sapendo che saranno i nostri pronipoti a vederne la maestosità secolare? Sapremo aspettare? Si tratta di intraprendere un nuovo itinerario educativo. Genitori, insegnanti e tutti coloro che ruotano attorno al mondo della scuola, sono stimolati dalle suggestioni offerte dalla pedagogia della lumaca e possono ricominciare a riflettere sul senso del tempo educativo e sulla necessità di adottare strategie didattiche di rallentamento, per una scuola lenta e nonviolenta.

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QUANDO LA SCUOLA (E)LEGGE IL TERRITORIO

Vivere in un luogo, sognarlo e renderlo più bello Chi ha opportunità di passare per Vienna non disdegni la visita alla Hundertwasserhaus.
Un edificio realizzato negli anni ‘80 su idea e disegno dell’artista, ecologista e “medico degli architetti”, il viennese Friedensreich Hundertwasser (1928-2000).
Di lui, a Vienna, troviamo anche il Museo (KunstHausWien) realizzato a partire da una vecchia fabbrica di mobili e l’abbellimento esterno di uno degli inceneritori della capitale austriaca.
Negli ultimi trent’anni della sua vita, questo eclettico artista disegna, progetta e (quasi sempre) costruisce, in Austria, Germania e tanti altri luoghi del mondo, esempi concreti di buona architettura, cioè luoghi per rendere felici donne e uomini: bagni termali, ospedali, chiese, stazioni di servizio, alberghi, musei, scuole e asili nido, fontane, autostrade, orinatoi… Hundertwasser è in definitiva un artista che (e)legge il territorio, che lo sogna, lo vede nei propri quadri e lo modifica rendendolo più bello, più educativo. Ecco quello che dovrebbe fare una scuola:
vivere, leggere, rappresentare e modificare (per renderlo più bello!) il luogo in cui si trova.
Piccole azioni quotidiane nella piccola scuola di Rontagnano Siamo abituati a fare riflessioni di carattere pedagogico, a partire dalle nostre esperienze concrete.
Un metodo induttivo che riteniamo molto pragmatico, concreto e vivo.
Per questo, piuttosto che partire dalle teorie, andiamo a rivisitare i fatti concreti, i gesti di ogni giorno, vissuti in prima persona. Nelle nostre esperienze scolastiche (sia che si tratti del ruolo da maestro che della funzione dirigenziale) abbiamo avuto come riferimento il territorio, che abbiamo rivoltato come un calzino. Con viva curiosità abbiamo cercato di conoscere tutto, tutto ciò che è terra-tradizioni-vita-cultura-natura.
È una ricerca che non è mai completata, mai esaurita, che prende spunto da tutto ciò che ci circonda: le cellette, gli alberi secolari, i calanchi, le volpi, i mestieri, le valli, le erbe commestibili e tanto altro ancora.
Ma vediamo quali sono queste piccole azioni quotidiane che ci hanno permesso e ci permettono di (e)leggere quel piccolo angolo di terra di Romagna, che è la bioregione (1) del Rubicone.
Per dovere di sinteticità li presentiamo come fossero appunti o note scritte.

1. Le uscite a piedi.
La strada, il cammino, i prati, i boschi, l’incontro con una biscia che si nasconde tra l’erba, un cagnolino, il contatto fisico forte con l’ambiente in cui siamo immersi, un specie di abbraccio vitale.

2. Le cellette.
Lo studio delle tante edicole sparse nel territorio. La loro storia, il santo a cui ognuna è dedicata, il posto in cui è ubicata.

3. La valle dell’Uso
La nostra valle, piccola e meravigliosa: Montetiffi, Pietra ddell’Uso, il corso del fiume, le strade, i sentieri, le tracce degli animali, le grandi ombre degli alberi.

4. Le mappe bioregionali.
Come conoscere e capire i tanti aspetti del territorio e trasporli su carta e/o formelle di terra-cotta.
Queste mappe craccontano la vita di un territorio che ha dei caratteri culturali e naturali omogenei in stretta connessione fra loro, un territorio in cui viveva e vive una comunità di persone che forgia la propria identità nel ricercare un miglior rapporto con gli altri e con la natura da cui attinge per il proprio fabbisogno.
24/09/13 Didattica ER | UpZone | QUANDO LA SCUOLA (E)LEGGE IL TERRITORIO

5. Padre Venanzio Reali (1931-1994).
La scuola di Rontagnano porta il nome di un frate cappuccino, poeta e artista, nato a Ville di Montetiffi.
Studiamo la sua vita, la sua opera pittorica-plastica-poetica.

6. Il cortile della scuola .
La cura del giardino e la messa a dimora di alberi da frutto: albicocchi, melograni, ciliegi, mandorli, meli. E poi fiori: viole, tulipani…

7. I mestieri .
La conoscenza diretta e lo studio degli antichi mestieri presenti nel territorio, in particolare quello del “fabbricante di teglie” (é tigièr).

8. Le visite al cimitero.
I nostri defunti, una parte del nostro mondo. Un luogo da non temere e che spesso viene tenuto nascosto ai bambini.

9. Le feste di Natale.
Da venti anni, alla vigilia di Natale, si organizza la Festa nel teatrino del paese, in collaborazione con “Gruppo Culturale”.
Si fanno scenette (anche in lingua romagnola) si balla, si canta e si declamano poesie.

10. I segni nella terra.
Ricerca nel territorio circostante dei tanti segni lasciati dagli animali selvatici: le grufolature dei cinghiali, i buchi lasciati dai bulbi tolti dagli istrici, gli incavi nei tronchi fatti dai picchi, le tracce, gli escrementi, i nidi, le borre.

11. Il teatro.
Da alcuni anni si partecipa alla Rassegna di teatro scolastico “Elisabetta Turroni”, organizzata dalla Bottega del Teatro del Rubicone, una associazione composta da 25 realtà del territorio: scuole, comuni, e gruppi culturali. Abbiamo scritto e messo in scena tre spettacoli teatrali.
Le nuvole di Angela.
Abbiamo immaginato una vecchietta che vive a Savignano di Rigo (Angela Sambi – 95 anni – parente di Monsignor Sambi, nunzio apostolico negli U.S.A.) che osserva le nuvole.
L’albero di di Aurora.
Una storia fantastica che narra dell’amicizia tra una bimba che vive sul Monte Farneto (Aurora) e un albero (un mandorlo).
Gervasio e le stelle.
La storia ricostruita del nostro più grande vagabondo: Giovanni Gervasi da Sarsina.

12. Incontri con la gente.
Le storie di una volta raccontate dagli anziani di Rontagnano, Montegelli, Tornano, Savignano di Rigo.

13. I sentieri con le radici.
Una vera e propria guida del territorio. 5 mappe che nascono dall’aver percorso a piedi i nostri luoghi, incontrando fiori, animali, storie personali…

14. Scrivere centinaia di poesie come continua esercitazione,
È spesso poesia in linguaromagnola, la lingua che molti bambini per fortuna parlano ancora a casa.
Viene offerto ai bambini uno stimolo e loro si esprimono su temi a loro cari: le ginestre, gli uccelli, i calanchi, la neve…”

Primavera
Nei prati si sente
marciare delle formiche
Alex Ruffilli
Viola
Un'ape posa sul viola
di un chicco d'uva
Enrico Dall'Ara

15. I calendari (2004-2006-2008).
Pubblicati a cura del Comune di Sogliano al Rubicone.
Dentro vi si trovano riflessioni, poesie, disegni, fotografie sui luoghi in cui viviamo:
2004: La piccola scuola tra le nuvole
2006: La scuola degli alberi e degli animali domestici
2008: Il calendario dei dodici paesi (le 12 frazioni).

16. Le palline porta-semi.
Una pallina miracoloso composta da argilla e humus e che avvolge semi di fiori, graminacee, erbe, ortaggi e piante.
Tante palline così da lanciare nei campi, nei fossi, nei calanchi e soprattutto là dove 24/09/13 Didattica ER | UpZone | QUANDO LA SCUOLA (E)LEGGE IL TERRITORIO
il fuoco ha bruciato il bosco…per farlo rinascere.
Questa tecnica, inventata dal giapponese Fukuoka e portata in Europa dal greco Panos Manik, ci è stata insegnata recentemente da Lorenzo Martini, un ragazzo che dedica la sua vita alle tecniche di agricoltura naturale.

17. L’ultima azione, le capanne viventi.
Strutture in salice, posizionate nel cortile della scuola, per creare gallerie, capanne, piccoli rifugi utilizzando rami lunghi di salice che piantati in terra, mettono radici e ritornano a germogliare ogni primavera. Angoli fantasiosi del giardino della scuola, intrecci di luci, lunghi spazi di ombra che invitano a correre. Inoltre, strutture naturali che giocano con i bambini e che rivivono ogni anno aiutando i bambini a sentire il divenire continuo di ciò che ci sta attorno.
Con gli anni diventeranno vere e proprie cattedrali viventi. Molti genitori hanno lavorato con noi.

Un Piano dell’Offerta Formativa incardinato nel territorio
Come leggere gli esempi che abbiamo appena portato?
È nel contesto in cui è inserita la scuola dove avviene il tutto.
E allora chiediamoci: quanto siamo immersi nel contesto in cui lavoriamo?
Quante sono profonde le nostre radici in quel luogo, in quella situazione?
Non necessariamente dobbiamo essere nati e vissuti nel contesto scolastico in cui lavoriamo.
Ma, per usare termini utilizzati in settori più o meno vicini alla scuola, dobbiamo “inculturarci” o meglio “incardinarci”.
Dobbiamo cioè capire la cultura di un luogo e legarci a quel luogo così come la porta è tenuta e ancorata dai cardini.
Ecco ciò che avviene nella pluriclasse di Rontagnano, la più piccola scuola del nostro Istituto Comprensivo.
Non è possibile agire con una proposta educativa (termine che preferiamo a Piano dell’Offerta Formativa) asettica, identica in ogni scuola.
Non siamo né fotocopie né cloni. Qui entra in gioco la biodiversità, che è la caratteristica essenziale del mondo.
Ogni luogo è diverso da un altro. Non possiamo omologare le nostre proposte come fossero bibite gassate o panini inventati da ditte che poi li propinano uguali in tutto il mondo Per conoscere il territorio in cui viviamo dobbiamo percorrerlo, dobbiamo saperci orizzontare, conoscerne le località, i luoghi.
In altre parole dobbiamo leggere il territorio, poterne avere una rappresentazione mentale.
Dobbiamo cioè avere nella nostra mente una mappa, una carta del territorio.
Dicono G.Meier e W.Morlang, “Quel che accade nel villaggio, accade nel mondo e quel che accade nel mondo, accade nel villaggio.
Per questo sono un provinciale convinto e credo che si diventi cosmopolita solo attraverso la provincia…”. (da DAS DUNKLE FEST DES LEBENS, (Basel, Bruckner und Thünker, Köln,1995).
Ogni realtà locale, ha tradizioni, riti, espressioni artistiche, modi di costruire le case, produzioni culturali, ricette tipiche in cucina con pietanze e sapori legati a quella terra specifica, maniere di vestirsi e costumi propri, una parlata, cioè una lingua locale (non tanto un dialetto, come viene speso definito in maniera disprezzante anche da noi uomini di scuola), usata dai viventi e tramandata di generazione in generazione.
Il resto, a quel punto, viene quasi di conseguenza e ha bisogno di pochissima formalità: i rapporti con le Amministrazioni Locali e le Parrocchie, le collaborazione con le Associazioni Culturali e le Pro Loco, le Biblioteche, le Ludoteche, i servizi per la Prima infanzia.

La strada e la memoria
Vorremmo concludere col racconto di un’altra esperienza, che è, se vogliamo, metafora del nostro modo di concepire un POF legato al proprio territorio sia dal punto di vista del tempo oltre che dello spazio.
Durante l’ultimo collegio docenti dell’a.s. 2005/6 abbiamo deciso di organizzare il primo incontro dell’anno scolastico successivo, a settembre con una modalità nuova.
Ci siamo recati, camminando a piedi dalla località Pietra dell’Uso al paesino di Montetiffi, una delle località più isolate e piccole del nostro territorio. Montetiffi, come accennavamo sopra, è un piccolo borgo di case, rinomato per il fatto di essere l’unico posto al mondo dove una famiglia costruisce ancore le teglie, il testo di 24/09/13 Didattica ER | UpZone | QUANDO LA SCUOLA (E)LEGGE IL TERRITORI terra e argilla, per cuocere la piadina romagnola.
Qui, nell’antica abbazia benedettina, abbiamo fatto un convegno sulla figura del maestro e pittore Federico Moroni, noto al mondo pedagogico italiano per la sua Scuola di Bornaccino (Santarcangelo di Romana – RN) e per il suo libro “Arte per nulla”.
Abbiamo scoperto, quasi per caso, che Moroni era stato insegnante della Scuola Rurale di Montetiffi negli anni 1937/38 e 1938/39.
E di quegli anni, per fortuna, sono rimasti nel nostro archivio scolastico i registri di classe.
Quattro documenti vivi, strumenti eccellenti di memoria e di storia del nostro territorio, della sua gente e della sua scuola.
Moroni arrivava da Santarcangelo di Romagna in bicicletta fino alla località Pietra dell’Uso e da qui si inoltrava per un sentiero, a piedi, per raggiungere la sede di servizio.
Abbiamo immaginato questo tratto come fosse il cammino del pedagogo (colui che accompagnava il fanciullo da casa a scuola) e con gli insegnanti del collegio docenti abbiamo fatto quel tratto
a piedi, come fosse “la camminata del pedagogo”, prima di immergerci nello studio sulla figura di questo maestro storico.
Abbiamo capito, da quella esperienza, che il registro di classe non può essere un mero atto burocratico o certificativo.
Ci siamo accorti, paradossalmente, che i registri del periodo fascista riuscivano a raccontare la storia di quegli anni e che, invece, i nostri registri rischiano di essere freddi strumenti certificativi. Da ciò la realizzazione di nuovi registri che sono veri e propri diari delle attività svolte, contestualizzati in luoghi e tempi precisi.

Gianfranco Zavalloni (Dirigente Scolastico)
Fabio Molari (maestro – pluriclasse di Rontagnano)
Istituto Comprensivo Statale Sogliano al Rubicone (FC)

(1) Con bioregione intendiamo un luogo geografico riconoscibile per le sue caratteristiche di suolo, clima, specie vegetali ed animali.
Ma anche una realtà in cui vivono e sono presenti le persone, giocando ognuno la propria parte -insieme agli altri – con consapevolezza. In questo contesto le persone siesprimono con tradizioni, riti, arte, modi di abitare, produzioni culturali,costumi.

tratto dal libro A scuola dalla lumaca. Idee e proposte per un’educazione fatta a mano.EMI Ed. 2017

L’ESAME DI STATO DEL PEGGIORE DELLA SCUOLA!
17 maggio 2012 di zavalloni gianfranco

LA PRIMA ESPERIENZA DA PRESIDENTE DI COMMISSIONE
Quando ho iniziato la mia carriera di maestro di scuola materna mai avrei pensato di ritrovarmi un giorno a presiedere una commissione d’esame di licenza di scuola media (oggi secondaria di 1° grado). Eppure una volta divenuto Direttore Didattico e successivamente – come si dice oggi – Dirigente Scolastico, un bel giorno mi sono trovato di fronte a questa esperienza. Il debutto, una decina di anni fa, è avvenuto in una bella scuola della prima periferia di Cesena. E durante la sessione degli orali i colleghi della commissione (nella secondaria di 1° grado sono i professori stessi della classe) mi annunciarono il candidato successivo come “il peggiore della scuola”. Poiché amo le sfide, la mia risposta fu immediata: “allora lo interrogo io!”. La presenza del candidato era imponente: altezza più o meno quanto la mia (185 cm), robusto e ben piazzato, calzoncini alle ginocchia e una folta peluria alle gambe. Un ragazzo che, se fosse nato qualche decina di anni prima, alla sua età, lo avremmo trovato a mietere il grano o a spaccar pietre in una miniera. Per me fu spontaneo sapere qualcosa di lui e gli chiesi subito dove abitava. “In una casa di campagna” fu la risposta. Lo incalzai per sapere se attorno alla casa c’era un campo coltivato… e la risposta fu affermativa: una piccola azienda agricola di tipo intensivo, tipica della bassa Romagna. Gli chiesi allora se erano i genitori a coltivare il tutto. La risposta fu inattesa: entrambi i genitori erano operai e “a mandare avanti i campi” erano lui e suo nonno. La conversazione si faceva sempre più interessante. “Ma chi usa il trattore e la motozappa?” La ri-conferma fu precisa: il nonno e lui. Poiché era fine giugno e nella campagna cesenate si coltivano ciliege, albicocche, pesche… e ogni varietà di verdure, gli chiesi se era mai stato al mercato ortofrutticolo (forse il più grande mercato all’ingrosso d’Italia). Rimasi di stucco dalla sua risposta: “ci vado anche domattina, con mio nonno!”  Io da piccolo ero stato molte volte con mio padre in quel mercato e così mi venne spontaneo iniziare in quel modo la prova orale. Chiesi al ragazzo di raccontarmi nel dettaglio tutte le operazioni, dal confezionamento della frutta e della verdura a casa, a tutti i passaggi che si sarebbero svolti sotto le tettoie del mercato stesso. Il racconto fu molto preciso e dettagliato: il modo di predisporre frutta e verdura nelle casse, l’arrivo al mercato, l’esposizione delle cassette, la sirena che annunciava l’inizio delle operazioni, i pre-contatti dei mediatori e poi la contrattazione coi compratori ed infine la vendita e la consegna della merce. Il “peggiore della scuola” sfoggiò un linguaggio appropriato, unì le varie questioni facendo i giusti collegamenti, mise a frutto conoscenze e competenze che potremmo definire “storico-tecnico-socio-matematiche”. Insomma, un colloquio che, come vuole la normativa ministeriale, doveva essere multidisciplinare, con la possibilità di verificare le competenze di carattere linguistico/espositive, facendo i dovuti collegamenti. Poi, ricordo bene, ci fu la prova pratica di musica e così ci ascoltammo l’esibizione fatta coi “bonghi”, strumento molto “manuale”, di cui l’allievo era appassionato. Seppi in seguito che quando uscì dall’aula, ai compagni che chiedevano un commento sulla difficoltà dell’esame, se ne uscì con una affermazione lapidaria: “è facilissimo!” Dall’altra parte i professori commentarono il tutto dicendo “ma noi in tre anni non l’abbiamo mai sentito parlare così bene e con tale competenza” e poi “non sapevamo nulla di tutto questo”.

L’IMPORTANZA DI CONOSCERE I PROPRI ALLIEVI
Lo stesso anno mi capitò poi di assistere ad altri due colloqui particolari: un ragazzino figlio di un medico e una ragazzina figlia di contadini, che casualmente avevo avuto come allieva 8 anni prima alla scuola materna. Per il ragazzo la commissione propose, come giudizio finale, un bel “ottimo”. Per la ragazzina la commissione commentò il colloquio definendolo “mediocre”, in sintonia con i tre anni appena trascorsi. Conoscevo bene la situazione di grande isolamento fisico (una casa isolata, in piena montagna e con poche risorse familiari) e culturale in cui viveva la candidata. La famiglia era nata grazie a un matrimonio concordato fra il padre “zitellone” e la madre proveniente da uno sperduto paesino della Basilicata, dove si organizzavano viaggi con autobus “ad hoc”, alla ricerca della possibile moglie. Diedi alla commissione alcune di queste informazioni e sostenni la tesi che dietro il “sufficiente” della ragazzina c’era uno sforzo ben superiore dell'”ottimo” dato al figlio del medico. I commissari non conoscevano minimamente la situazione socio-familiare della loro allieva. .. e si ricredettero sul giudizio dato all’allieva._Che dire di tutto questo? Forse dovremmo leggere nuovamente “Lettera a una professoressa” che, 45 anni fa, ci ricordava che per insegnare inglese a Gianni bisogna prima di tutto conoscere Gianni.

tratto dal libro A scuola dalla lumaca. Idee e proposte per un’educazione fatta a mano.EMI Ed. 2017

ERRARE: VOCE ERETICA DEL VERBO CREARE

Eretici erranti – Quando Gianni Rodari si rivolge ai genitori e agli insegnanti, nella sua introduzione al “Libro degli errori” (il testo ormai epico di storie e filastrocche basate sugli errori), prende atto che spesso le sue filastrocche dedicate agli accenti sbagliati, ai “quori” malati e alle “zeta” abbandonate, sono state accolte perfino nelle grammatiche. E continua Rodari: Questo vuol dire, dopotutto, che l’idea di giocare con gli errori non era del tutto eretica.

Siamo nel 1964. Nove anni dopo, nel 1973, lo stesso Rodari esce con “Grammatica della fantasia” e non manca di dedicare un capitolo all’errore, all'”errore creativo”. Qui snocciola un serie di esempi in cui dimostra, a proposito dell’arte di inventare storie, che in ogni errore giace la possibilità di una storia.

Il capitolo poi si conclude con una affermazione emblematica: Sbagliando si impara, è vecchio proverbio. Il nuovo potrebbe dire che sbagliando si inventa.

Non a caso fra gli errori che storicamente hanno creato invenzioni troviamo la Nutella, la Coca Cola, lo Champagne Dom Perignon, il Gorgonzola. .. e pare persino la stessa Pizza. E poi i tanti errori di Einstein o la scoperta di rimedi farmaceutici, come vaccini o penicillina. A Parigi lo scorso anno c’è stato anche un Festival interamente dedicato all’Errore. E scopro che nel prossimo novembre, a Torino, ci sarà “Sm-Art Mistakes” un grande festival per ampliare la mente, affinare le capacità analitiche e ispirare la creatività. Si parlerà di “errori intelligenti, mutazioni, fallimenti, disfunzionalità, discrepanze, incidenti, varianti impreviste, scoperte occasionali, estetiche dell’errore, scarto dalla massa, fallimenti progettuali, progetti irrealizzati, disastri, sbagli, imperfezioni, disturbi, appropriazioni, effetti collaterali, lapsus e flop”.

Negli anni ’60 il maestro Federico Moroni, autore di “Arte per gioco” (un vero e proprio resoconto su trent’anni di esperienza di didattica dell’arte) ci invitava a non usare gomma e matita…e a lasciare che anche una goccia di inchiostro, caduta inavvertitamente dal pennino, divenga il primo elemento artistico per un nuovo inaspettato disegno.

Errore didattico – Personalmente ne sono più che mai convinto. L’errore è uno strumento didattico fondamentale. Ultimamente, in occasione degli esami finali della Scuola Secondaria di 1° Grado, nello spiegare agli esaminandi che non potevano usare i cosiddetti bianchetti (pena il possibile invalidamento della prova) per coprire eventuali parole scritte male, ricordavo anche quanto sia importante, visivamente, memorizzare la parola sbagliata… proprio per ricordare che quella è “errata”. Questo non accade con il computer, dove il semplice ctrl+z (control zeta) permette di cancellare per sempre ogni errore grammaticale di ortografia. Ma la cosa che più mi interessa è – per l’appunto – l’errore come risposta creativa, come nuova opportunità che la mente e la mano dell’uomo utilizzano per dare nuove risposte, per cercare nuove soluzioni. D’altronde la regola principale della ricerca scientifica è racchiusa in quelle due parole che sono “per prova ed errore”. – Gianfranco Zavalloni

tratto dal libro A scuola dalla lumaca. Idee e proposte per un’educazione fatta a mano. EMI Ed. 2017

COPIARE, VOCE DEL VERBO IMPARARE INSIEME

SCAGLI LA PRIMA PIETRA CHI NON HA MAI COPIATO! – Copiare è un verbo che nel mondo della scuola ha due significati che potremmo definire antitetici. Ri-copiare un brano sul proprio quaderno, ri-copiare l’esercizio… e poi eseguire un dettato: tutti esercizi di copiatura che hanno avuto fino ad ora un profondo significato “positivo”.  Ma c’è anche un aspetto che il qualche modo colloca il copiare come elemento negativo del mondo scolastico: “hai copiato!!”, “mi raccomando non copiate…”, “vi metto distanti così non potete copiare…”. Sono frasi tipiche che gli insegnanti pronunciano durante una esercitazione, un compito in classe o lo svolgimento di una attività individuale. Ora, io credo che siano poche le persone che, nel corso della propria carriera scolastica, non abbiano fatto l’esperienza di “copiare”. E ci sono persone che, avendo poi raggiunto posizioni professionalmente del tutto invidiabili, hanno ammesso, magari anni dopo, di aver copiato tante volte da uno o più compagni di classe. Insomma, il copiare fa parte dell’esperienza scolastica. Ma non solo. Pensiamo ai grandi artisti e alle loro scuole. Di molte grandi produzioni artistiche antiche tutt’ora si dice “è di scuola….”  e poi si cita il maestro. Ma gli allievi, contemporanei o non, erano talmente bravi che sapevano copiare benissimo lo stile del maestro, da non saperne poi distinguere le mani. E comunque, anche fra i contemporanei, generalmente tutti gli artisti copiano. È la prima fase della loro esperienza artistica. Quella che generalmente precede la fase in cui un artista trova poi il suo stile e si caratterizza.

SOLIDARIZZARE NELLA SOCIETÀ INDIVIDUALISTA – Nonostante la mia esperienza coi bimbi e le bimbe da maestro si sia conclusa 15 anni fa, devo dire che ho imparato proprio da loro il senso della solidarietà. Ai bimbi e alle bimbe della scuola d’infanzia viene spontaneo solidarizzare con i compagni in difficoltà… e fanno copiare. “Fai come faccio io…”: una frase del tutto consueta per i bambini piccoli, quando ancora la competitività non fa parte del loro DNA. E devo dire che in questa loro spontanea collaborazione ho capito che spesso sono gli stessi studenti i migliori maestri dei loro compagni. Si apprende più facilmente da un compagno, che ha già imparato la regola, che dal docente. E vorrei approfondire segnalando una riflessione che mi nasce spontanea dopo aver ascoltato alcuni anni fa un professore della Università di Venezia, che riferiva di una ricerca effettuata presso le imprese del NordEst italiano. Questa ricerca concludeva evidenziando le due competenze prevalenti che dovrebbero caratterizzare uno studente in uscita dalla scuola superiore (e quindi un potenziale funzionario per l’impresa). La prima competenza dovrebbero essere quella di “di saper argomentare, a voce, su un tema per almeno 10 minuti”. La seconda, di non meno importanza, è quella di “saper lavorare in team”. Ecco, io credo che in una società che da anni è ritornata da esaltare in maniera quasi esasperata le capacità e i meriti di ogni singolo individuo…. affermare che una delle funzioni principali della scuola è “imparare a lavorare insieme” sia importantissimo. Se a scuola ci si dovesse andare solo per apprendere nozioni, sarebbe, a mio parere, tempo sprecato. E riportando ciò al tema del copiare, mi viene da copiare l’inizio di un articolo che Claudio Magris ha pubblicato pochi anni fa sul Corriere della Sera, proprio su questo argomento. Sostiene Magris, usando parole semplici ma efficaci, che “A scuola, come nella vita, ciascuno dovrebbe essere consapevole del proprio ruolo e fare bene la parte che gli spetta.__Anzitutto copiare (in primo luogo far copiare) è un dovere, un’espressione di quella lealtà e di quella fraterna solidarietà con chi condivide il nostro destino (poco importa se per un’ora o per una vita) che costituiscono un fondamento dell’etica. Passare il bigliettino al compagno in difficoltà insegna ad essere amici di chi ci sta a fianco e ad aiutarlo pure a costo di rischi, forse anche quando, più tardi, tali rischi, in situazioni pericolose o addirittura drammatiche, potranno essere più gravi di una nota sul registro”. Più chiaro di così!

tratto dal libro A scuola dalla lumaca. Idee e proposte per un’educazione fatta a mano. EMI Ed. 2017

SBUROCRATIZZARE LA SCUOLA A PARTIRE DAI REGISTRI

AFFRONTARE E RISOLVERE I PROBLEMI – Dopo 16 anni di esperienza da maestro alla scuola materna, improvvisamente, quasi senza volerlo (e nemmeno sperarlo) mi sono trovato a fare il Direttore didattico. Credo che chiunque, nella propria vita professionale, si sia trovato ad avanzare nella cosiddetta scala gerarchica (passando da un livello inferiore a funzioni superiori connaturate con maggiori responsabilità) abbia poi cercato di affrontare e risolvere le questioni più problematiche vissute nel periodo precedente. Una delle questioni che maggiormente inquietano il mondo dei docenti è la “compilazione del registro”. E questo non tanto nella parte che viene svolta quotidianamente (presenze, assenze e voti per le prove), ma per tutta quella parte relativa a programmi, programmazioni, descrizione della attività svolte, verifiche e giudizi personali.

Su questo ultimo argomento, anche se di fondo condivido il pensiero di Alberto Manzi (www.centroalbertomanzi.it) già dal primo anno come Direttore didattico a Moena, nel 1996/97,  sensibile alle lamentele dei docenti, ho costituito una commissione di lavoro. In poche riunioni il gruppo ha proposto che ogni docente potesse scegliere fra tre ipotesi. Una semplicissima: su uno schema per parole chiave bastava segnare poche x. Una seconda procedura era di tipo discorsivo, ma estremamente sintetica. La terza era quella più ampia, usata fino a quel momento. Il problema era quindi risolto. Una sola nota comica: alcune insegnanti, per paura di sbagliare, invece di sceglierne una, le utilizzarono contemporaneamente tutte e tre!

IL NOSTRO REGISTRO – Più recentemente, nell’Istituto Comprensivo di Sogliano al Rubicone abbiamo elaborato, in collaborazione con la Tipografia Leardini di Macerata Feltria (specializzata in registri), i nostri registri “personalizzati”. Abbiamo scelto per la parte che deve restare all’archivio della scuola un registro semplicissimo con elenco degli allievi, presenze/assenze, voti e sintetico giudizio finale. Poi abbiamo realizzato un vero e proprio strumento di documentazione/condivisione. Lo abbiamo chiamato DIARIO ANNUALE DELL’INSEGNANTE e viene collocato, alla fine, nel Centro di Documentazione della scuola, chiamato “La Traccia”. Lo schema del diario è il seguente: vediamolo cercando di capirne i principi di fondo.

1. 1. Programmazione Educativa di Istituto – Vanno qui riportati non tanto i “Programmi nazionali o ministeriali” (quelli già ci sono e sono un riferimento per tutti) bensì i temi di fondo su cui ogni collegio docenti (infanzia, primaria e secondaria) ha deciso di lavorare nel corso dell’anno.

2. 2. Programmazione annuale di plesso – Ogni singolo plesso scolastico sceglie le proprie peculiari tematiche e attività su cui lavorare… al fine di concretizzare le idee di fondo dell’intero istituto.

3. 3. Schemi delle scansioni periodiche – Ogni mese o ogni due mesi si schematizzano le attività più significati che verranno svolte in quel periodo.

4. 4. Diario delle attività svolte e materiale “vivo” – È la parte più significativa del registro, in quanto diviene la memoria scritta di quello che si fa o si è fatto. Non deve essere – appunto – qualcosa di burocratico, ma qualcosa di narrativo. Un diario-cronaca-storia che, oltretutto, permetta una verifica delle attività che si sono fatte, anche da parte di genitori, dirigente scolastico e altri. Ogni insegnante può farlo quotidiano settimanale… o altro e inserire avvisi, giornalini, fotografie. Possono, se si vuole, metterci mano anche i ragazzi stessi. Il risultato: qualcosa di stupefacente. Provare per credere.

Una nota finale su come fare un “Repertorio di buone pratiche didattiche”, per lo meno a livello di Istituto. Anche questo è stato sperimentato! È sufficiente chiedere ad ogni insegnante (nella mia scuola erano più di 100) di descrivere in maniera sintetica, in mezza pagina di formato A4, una attività (una sola!) ben fatta nel corso dell’anno. Raccogliendo le attività in un fascicoletto (da distribuire e quindi condividere in ogni plesso scolastico) viene fuori un quaderno di 50 pagine con un centinaio di esperienze che altrimenti resterebbero nel “silenzio di ogni singolo insegnante”. Lo sforzo minimo di ciascun insegnante, per ottenere una carrellata di esperienze significative da condividere. Sburocratizzare è prima di tutto condividere.

tratto dal libro La pedagogia della lumaca. Per una scuola lenta e non violenta.EMI Ed. 2014

UNA RETE INTERNAZIONALE PER UNA SCUOLA LENTA

Un movimento, una rete per una slow -school – I segnali sono chiari: sta nascendo una rete spontanea di genitori e insegnanti che chiedono a gran voce, per i loro figli e le loro figlie di rallentare, vogliono una “scuola più lenta”, una educazione “slow”, che rispetti i tempi dell’infanzia. Mi è parso naturale definire questo movimento, nato soprattutto dalla sensibilità materna, mamme per la lentezza. Ricevo settimanalmente mail di maestre e mamme che raccontano le loro esperienze, le loro preoccupazioni, la loro gioia nell’inseguire i ritmi della lumaca._Mi giunge una e-mail firmata “una mamma preoccupata”. La maestra di matematica mi dice così…:”suo figlio è lento, è una lentezza mentale…” non so come approcciarmi a questo problema non so come risolverlo, ho fatto una visita dallo psicologo e mi ha detto che il bimbo è normale ed io non so come aiutarlo scusatemi se ho fatto questo sfogo ma leggendo su internet dell’elogio alla lentezza ho voluto lasciare questo messaggio se potete indicarmi il modo per aiutarlo è un bimbo intelligente ama la natura gli animali non interagisce molto con gli altri in classe perché spesso è distratto o semplicemente assente forse vaga con la mente poi se preso con durezza fa e le fa bene le cose spiegate però ovviamente fa fatica perché si perde nelle sue fantasie non so….come spiegare vorrei solo che avesse modo di esprimersi anche nello studio – E prosegue: – giusto per informarla meglio sulla situazione dato che lei è un esperto e mi può dire di più riguardo al metodo con cui mio figlio viene istruito, questa mattina ho chiesto alla maestra perché al bambino gli è stata tolta la verifica senza averla potuta terminare e lei mi ha detto perché era finito il tempo cioè 20 minuti e fa la seconda elementare ed è pure (magari un altro errore) anticipatario…le ho chiesto se può evitare di mortificare il bambino sottoponendolo a queste verifiche col tempo e magari evitare di dare a tutti un voto tranne lui dicendogli: “niente”….cioè nessun voto. E mio figlio, a casa, mi ha chiesto..”mamma cosa è meglio niente o male?” Io gli ho detto che era meglio un male per aver fatto 2 risposte su 8 che un niente considerando che qualche risposta l’aveva data….”-.

Mamme per la lentezza – Un’altra mamma mi scrive e racconta del libro LA PEDAGOGIA DELLA LUMACA. -: Ne ho acquistato 4 copie, una da regalare a me, le altre le ho regalate a tre mamme con cui adoro confrontarmi… Ieri ho letto il capitolo sull’uso/abuso di fotocopie…diciamo che mi sto proprio gustando questa passeggiata. Questo libro è arrivato al momento giusto, come tutti gli incontri del resto. Per certi versi trovo riscontri a bisogni che sentivo dentro per altri versi mi sto ripensando. Penso comunque, e questo mio pensiero è l’oggetto del “contendere” con le altre mamme, che per “cambiare il mondo” bisogna prima di tutto tendere noi al “diverso”, alla bellezza, al riappropriarci della nostra essenzialità. Altrimenti finiamo per vivere una vita non nostra, con ritmi non nostri, inseguendo miraggi abilmente precostituiti e costruiti da altri. Le altre mamme se da un lato riconoscono la bellezza di una vita da lumaca, dall’altro ritengono fondamentale “adeguarsi” alle richieste della nostra società per non finire come “a-sociali” e dunque come emarginati. Ho due bambini, di 10 e 7 anni, insieme a loro ho scoperto e sto scoprendo il senso di una vita che mi scivolava addosso e che adesso invece vivo. Lentamente

Piccoli ma chiari esempi – Mi scrive Sandra Rompianesi della sua esperienza di pedagogista e maestra. “Si tratta di inventare un ritmo nuovo, lento. Un nostro modo di essere che preveda la sosta, che crei spazio alla solitudine buona, una solitudine che permette di stare bene con se stessi anche non facendo niente. Quando ho ripreso a lavorare con i bambini della scuola materna li ho trovati veramente “centrifugati” dalla vita, come del resto anche i loro genitori, “fuori di loro”… iperattivi…incapaci di ascoltare…impermeabilizzati all’esperienza… dipendenti dalla tv… (ovviamente esagero un po’)._Quello che era il mio percorso personale mi diceva che poteva essere una cosa buona anche per questi piccoli: camminare sulla pista della lentezza, rallentare per assaporare.___Come concretizzare queste idee? Ho tentato alcune esperienze (piccole cose) che ho proposto ai bambini e che sono diventate irrinunciabili per gli effetti benefici che hanno su di noi e su di loro. In queste esperienze, credo che il ritmo sia molto importante, perché ti permette insieme alla costanza nel tempo di vivere la familiarità e più un’esperienza è familiare e più ci stai bene dentro.__1. il silenzio buono: ogni giorno con i bambini riuniti ci gustiamo alcuni minuti di silenzio “buono, buono”._2. la sosta: almeno una volta alla settimana il gruppo dei bambini si dedica a questa esperienza di fermata: raccogliamo  le voci in  un anfora e in silenzio, tolte, le scarpe raggiungiamo uno spazio della scuola libero; penombra musica lenta e dolce ( può esserci un aroma nell’aria, arancio, limone, vaniglia ecc..alcune candele) rallentiamo i movimenti fino a fermarci ad ascoltare lungamente il nostro corpo; sfioriamo lievemente le varie parti del corpo per appropriarci di esse….a volte usiamo anche materiali naturali (piccoli percorsi sensoriali ad esempio con lenticchie, fagioli, piccole foglie).__3. le parole dolci: settimanalmente nel cerchio ricerchiamo parole dolci da dire alle persone care, amici, parenti, animali, elementi naturali._4. bolla di sapone e sfera di cristallo: all’inizio della settimana e alla fine mettiamo in una grande bolla di sapone (immaginaria) tutte le lacrime, le sgridate, le tristezze, le delusioni… Questa viene poi spinta fuori dalla finestra. Nella sfera di cristallo mettiamo i baci, le coccole, le carezze, e viene messa in tasca e custodita.__5. attività inutili: ascoltare la pioggia, ascoltare il vento, raccogliere sassi, riempire e svuotare le tasche di un monello, costruire istallazioni con materiale naturale all’aperto, lanciare palline di terra e semi con la fionda, costruire acchiappa tutto da posizionare all’aperto, tessere o disfare le tele, sgranare legumi, intagliare bucce di agrumi.__6. la poesia: sempre più spesso uso la poesia dei grandi poeti come momento particolarmente intenso e lento dove vedo i bambini trasfigurati dai versi che ripetono, dove imparano a sussurrare.

A pedagogia dos caracois – Ho voluto conoscere Rubem Alves, con cui condivido da anni l’esperienza di scrivere in una rivista di intercultura, senza però averlo mai conosciuto. Mi reco a casa sua, a circa 100 chilometri da San Paolo, in Brasile. Gli porto un po’ di mie pubblicazioni e lui mi fa dono delle sue. Scopriamo in quel momento che anche lui ha appena pubblicato (fresco di poche settimane) un libro (in portoghese) con stesso titolo del mio: A PEDAGOIA DOS CARACOIS. Si era ispirato al titolo dell’articolo uscito su CEM Mondialità nel 2003 con cui, per la prima volta, ho affrontato il problema.

Elogio della educazione lenta – Intanto in Spagna, il maestro catalano Joan Domènech Francesc ha pubblica un libro dal titolo ELOGIO DE LA EDUCACIÓN LENTA. Un testo che nasce dalla sua pratica di maestro, dalla sua esperienza didattica. Joan definisce i 15 principi per una educazione lenta e poi snocciola 50 idee per “decelerare” il tempo. Esempi concreti, suggerimenti offerti alle scuole e alle famiglie. Joan rilancia più volte il suggerimento di Maurice Holt “è ora di cominciare il movimento della scuola lenta” .

Le idee, le sensibilità viaggiano al di la delle distanze: è un lento movimento per una educazione e una scuola.

tratto dal libro La pedagogia della lumaca. Per una scuola lenta e non violenta.EMI Ed. 2014

VALORIZZARE I TALENTI DI CIASCUNO

CASA – Rubem Alves, col quale condivido la collaborazione nella rivista di intercultura Cem Mondialità, ha scritto un libro sulla possibilità di concepire il costruire e il vivere la casa come un eccellente itinerario didattico e pedagogico. Il suo sito internet ha come titolo: La casa di Rubem Alves. Quello del “vivere la casa come fosse una scuola” è una idea originale, che forse qualcuno sta già applicando o che qualcuno vorrà sperimentare. Mi auguro che la collana di CEM-Mondialità ospiti in futuro la traduzione in italiano di questo libro.

CASO – Nei miei viaggi per il mondo sono stato spesso accompagnato dal caso. E il caso mi ha portato in luoghi affascinanti, unici, gradevoli. Luoghi in cui stare era immediatamente piacevole. Fra tutti questi, i luoghi in cui maggiormente mi sono sentito bene sono quelli dove in qualche modo viene esaltata la cosiddetta “terza pelle dell’uomo”, che dopo la propria epidermide e il vestito, è la casa.

CASE – Mi piace ricordare alcuni di questi luoghi.

1. La casa di Hundertwasser. Nel pieno centro di Vienna, in mezzo ad una città in stile liberty, a cavallo fra il classico e i moderni e spersonalizzanti grattacieli, da una ventina d’anni è una presenza viva la “HundertwasserHaus”. Forme arrotondate, niente “linea retta”, colori, mattoni che hanno una storia, il pittore ecologo e medico degli architetti (come osava dire lui) ha lasciato una traccia viva di un modo di vivere piacevole. E mi verrebbe da definirlo “a misura di bambini”, quindi di tutti!

2. Le case di terra sulle Ande del Perù. Qui la terra, la terra cruda, è l’elemento primo con cui le persone si “auto-costruiscono” la propria casa. Mi riferisco, in prevalenza, alle case contadine, quelle con un bel tetto di “ichù” (una erba molto forte dell’altipiano) e realizzate o con gli “adobes” (mattoni di terra cruda) o con il metodo dei “tapiales” (cassoni riempiti di terra battuta). Sono case con spigoli levigati da mani callose e anche il letto è di terra.

3. Santorini. Un luogo magico, le case bianche che si accavallano l’una sull’altra con le cupole semisferiche di un azzurro vivo.  È l’immagine che spesso viene usata dalle pubblicità sulla Grecia. Qualcuno dice che a Santorini esistesse la storica città di Atlantide… poi inghiottita dal mare. L’architetto svizzero Le Corbusier fu estremamente impressionato da questa architettura vernacolare, al punto da introdurne alcuni elementi nei suoi progetti.

4. Sidi Bu Said. A pochi chilometri dall’antica Cartagine, in Tunisia, Sidi Bu Said è per definizione la città degli artisti. Anche qui dominano unicamente il colore bianco dei muri e l’azzurro di porte e finestre. Una città che si affaccia dall’alto sul Mar Mediterraneo e dove gli artisti plastici trovano la loro fonte di ispirazione.

5. Casapueblo. In Uruguay, a 100 chilometri da Montevideo c’è Punta Ballena. Qui l’artista Carlos Páez Vilaró realizza una casa-atelier-museo-albergo-ristorante “in contrasto netto contro la linea e gli angoli retti, cercando di umanizzare la sua architettura, facendola più dolce e utilizzando l’idea del forno del pane”. Il risultato: un affascinante e poetico luogo di tranquillità, adagiato come un grande gatto che dorme, di fronte al mare offerto dal Rio de la Plata.

6. Alberobello. Quanto sono in giro per il mondo e mi chiedono dell’Italia e delle sue bellezze, si va spesso a parlare di mare, di città d’arte, di Roma. Poi immancabilmente si finisce a parlare di Venezia, la città “meraviglia del mondo”. Ma io aggiungo sempre che c’è un altro luogo incredibilmente unico e speciale in Italia: Alberobello. I suoi trulli, le decorazioni, i pinnacoli, le pietre… sono qualcosa di rara meraviglia.

CASINE –  A Cesena c’è il luogo in cui si producono le “casine”: qui è di casa un profondo sentire che io definisco magico. Tre educatori del Centro di Formazione Lavoro dall’En.A.I.P animano questo spazio di lavoro_ rivolto a persone disabili. Il loro lavoro è quello di coordinare “il flusso di creatività dei ragazzi, incanalandolo in processi produttivi che riescono ad utilizzare anche quelli che potrebbero essere definiti errori di esecuzione, trasformandoli così in elementi caratteristici e di pregio del manufatto”.  Le casine di legno sono il frutto di questa loro attività. Meravigliosi oggetti d’arte e di arredamento. Fra gli operatori c’è l’amico – Carlo Cola –  pittore di gran classe. Scopriamo due anni e fa di essere stati anche a scuola insieme, in 5° elementare. Carlo ha una idea: arrivare con i suoi ragazzi nell’atrio delle scuole, montare una grande casa e “insieme a loro” mettere in piedi l’atelier… giocando, lavorando, dipingendo e costruendo. Una maniera unica per fare formazione e per educare le nostre scuole a non escludere nessuno – anzi – a valorizzare i talenti di ciascuno.

CASINE.IT – Per i curiosi: http://www.casine.it

Re-imparare l’arte di far domande?

Sono stato invitato pochi giorni fa ad un incontro nel Comune di Belo Horizonte, sulla esperienza di una scuola d’infanzia. Ero convinto che l’incontro fosse in municipio, ma invece risultava essere a decine di chilometri di distanza. Ho deciso allora di rinunciare alla riunione e di dedicarmi alla ormai rara “arte di girovagare per la città”, sbirciando fra le vetrine e curiosando nel piccoli negozi. Sono entrato in una minuscola bottega. Sembrava una biblioteca di strada. Poi mi sono reso conto che non era affatto una biblioteca, ma una libreria, un piccolo negozio di libri e dischi in vinile usati.

Non avendo più impegni mi sono dedicato a curiosare. Sono stato subito attratto dallo scaffale-settore di libri di pedagogia, e due di questi mi hanno chiamato. L’autore del primo è di A.S. Neill, il fondatore della famosa scuola democratica inglese di Summerhill. Il titolo è intrigante: DIARIO DI UN MAESTRO. In copertina una frase che ci indica il tema di fondo: Riflessioni di un educatore idealista intorno alle regole educative nate dalla burocrazia e che non tengono conto delle reali obiettivi della educazione”. Il secondo è di Paulo Freire e Antonio Faundez. Anche per questo sono attratto dal titolo: PER UNA PEDAGOGIA DELLA DOMANDA. Non è il classico testo accademico, ma la trascrizione di un lungo dialogo fra l’autore brasiliano noto per la cosiddetta Pedagogia degli Oppressi e un filosofo cileno esiliato in Europa ai tempi della dittatura di Pinochet. Un modo aperto di fare un libro, un “botta e risposta” realizzato nella consapevolezza che anche uno stile orale, leggero, affettivo è qualcosa di molto serio e rigoroso. Pedagogia della Domanda mi riporta a Daniele Novara, che negli anni scorsi, con i suoi scritti sulle “domande legittime e illegittime”, ci aveva introdotti sul tema dell’importanza del come si fanno domande.

Non mi sono ancora avventurato nella lettura dei due testi e subito vengo folgorato da una classe di bambini e bambine della scuola d’infanzia, con i quali mi trovo a condividere la visita un una delle affascinanti grotte dello stato del  Minas Gerais. La guida illustra ai bambini la riproduzione identica di uno scheletro di un animale preistorico presente nella grotta: una via di mezzo fra un cavallo, un lama e una giraffa. La guida non ha ancora terminato la presentazione che una selva di mani si alza dai bimbi e dalle bimbe. E inizia una raffica di domande.

Curiosità…, perché…??, ma dove…??, e allora…??

Ripenso ad un anno fa quando andai in Repubblica Ceca con i ragazzi della Scuola Media per una settimana di gemellaggio. Il Preside della scuola ceca, che aveva presentato l’organizzazione e i progetti della scuola, chiese ai nostri ragazzi: “…e adesso fate voi delle domande!” La risposta fu “il silenzio più assoluto!”. Cosa succede nelle nostre scuole?? Perché i bimbi della materna sono pedagogicamente avanzati e sanno fare domande e man mano che si cresce si perde questa attitudine fondamentale all’apprendimento? Spesso nelle nostre scuole italiane è ancora in vigore la pratica didattica della “spiegazione”, “studio individuale” “interrogazione-interrogatorio”.

E nell’interrogatorio ci si vuol sentir ripetere ciò che precedentemente è stato raccontato. L’unica volta che nella mia carriera da Dirigente Scolastico ho assistito in diretta ad una lezione di un docente (e assicuro chi legge che è imbarazzante sia per il professore, sia per il preside!) mi sono ritrovato ad ascoltare, durante l’interrogazione, frasi del tipo “… ma è proprio questo che io ho detto quando vi spiegavo questo argomento?”. “… allora si vede che non sei stato attento: a cosa pensavi!”.

È forse questo educare alla creatività? Far crescere coscienze critiche?

Proviamo insieme a ripensare a quelle volte che per conoscere o sapere qualcosa, abbiamo domandato. La risposta di sicuro l’avremo incamerata e sarà diventata subito nostra!
Motivazione, interesse, curiosità, tre molle importanti per apprendere.

tratto dal libro A scuola dalla lumaca. Idee e proposte per un’educazione fatta a mano. EMI Ed. 2017

Dalle Marche al Sud America… e ritorno

C’è un aspetto che difficilmente noi teniamo in considerazione quando trattiamo il tema della emigrazione e dello spostamento dei popoli su questa grande mela che chiamiamo terra. È la questione della definitiva lontananza e quindi della impossibile vicinanza materiale ai propri familiari nei momenti di lutto. Il 15 novembre scorso mi trovavo, insieme a Stefania, a Mariana, una storica cittadina brasiliana dello stato del Minas Gerais. Qui, nelle profonde miniere d’oro, dopo l’abolizione della schiavitù, sono venuti a lavorare anche molti emigranti italiani. E qui, mentre ci stavamo dirigendo in taxi alle antiche miniere d’oro, Stefania intravede una scritta pubblicitaria e mi dice: “guarda che ho visto l’entrata di un Museo delle Marionette”. Tornati dalla Miniera cerchiamo il museo. Ci troviamo davanti ad un locale piccolo ma delizioso. Il museo è gestito da una bella e dolce signora brasiliana che (saputo della mia passione per i burattini) ci accoglie con entusiasmo e da suo marito Catin Nardi, un marionettista trasferitosi in Brasile dalla Argentina. Un minuscolo bar, un laboratorio per la costruzione dei pezzi, un teatrino di marionette da 50 posti, un museo con personaggi stupendi costruiti dallo stesso Catin. Ci porta nel teatro e ci rappresenta dal vivo tre pezzi di un suo spettacolo. Lui è figlio di italiani e suo nonno emigrò nel 1923 dalla campagna italiana. Catin vorrebbe ritrovare le origini della famiglia che ricorda d’essere di Francavilla d’Avila, capire se ci sono parenti in Italia, andarli a conoscere. La nostalgia della terra d’origine della famiglia è una delle problematiche più sentite dagli italo discendenti figli di emigranti. Parlando scopriamo che non è Francavilla d’Avila il piccolo paese della provincia di Ascoli Piceno da cui è partito il nonno, bensì Francavilla d’Ete, dove Stefania, prima di trasferirsi in Romagna, è stata maestra 4 anni e ha avuto fra i bambini un certo Nardi. Bene, ritornati a Belo Horizonte iniziamo i contatti con il Comune e la Parrocchia di Francavilla d’Ete, ritroviamo i dati della famiglia Nardi e scopriamo che del nonno del marionettista Catin è ancora viva la sorella Vittoria, di 97 anni. Tornati per alcune settimane in ferie in Italia, con in mano alcune foto, andiamo a cercare l’anziana signora, nonché i figli e i nipoti. L’emozione e la sorpresa è indescrivibile quando la signora e i parenti scoprono di avere dall’altra parte dell’oceano, nipoti, cugini, pronipoti. Vittoria aveva ricordato spesso nella sua vita in fratello Giulio, che all’età di 17 anni, 86 anni fa, si imbarcò dal porto di Genova per cercare fortuna in America. Vittoria non ha sentito più la voce di suo fratello. Aveva solo ricevuto due foto del matrimonio. Ma poi più nulla. Non sa se aveva avuto figli, non sa quando è morto. Sa solo che era partito per l’America e l’America poteva significare Canada, Stati Uniti, Centro America, Brasile, Uruguay, Argentina. Catin sicuramente tornerà nei prossimi mesi nelle Marche, a Francavilla d’Ete, e porterà con sé, nella valigia, le marionette. Ho saputo nel frattempo che è reputato uno dei più bravi marionettisti brasiliani. Nel repertorio del suo Teatro di marionette c’è uno spettacolo da titolo “La giornata di Peppino”. Peppino è un contadino italiano, emigrante in Sud America, che si sposa una donna di colore e coltiva la terra rossa del Brasile, così come aveva imparato da piccolo nelle dolci colline del Sud delle Marche. A Mariana, quella notte, mi sono svegliato e non sono riuscito più ad addormentarmi. Ero agitato, ma non sapevo il perché. Poi poche ore dopo ho saputo che, nelle stesse ore, è morto mio zio Pippo di Brescia… fratello di mia mamma. Pippo era grande lettore e incredibile raccontatore di storie e vicende autobiografiche della mia famiglia. C’era anche lui quando sono partito da Cesena per il Brasile, alcuni mesi fa. Ho capito in quel momento cosa vuol dire vivere da emigrante, lontano da casa, e non essere vicino ai familiari in occasione di un lutto. Ho ripensato a quando nelle nostre scuole ci lamentiamo che un bambino straniero se ne ritorna a casa per lungo tempo perché nella sua famiglia è morto qualcuno.

tratto dal libro A scuola dalla lumaca. Idee e proposte per un’educazione fatta a mano. EMI Ed. 2017

Per vedere un pezzo di Catin http://www.youtube.com/watch?v=ZlEro6EWeyM

Braccia rubate all’agricoltura.

Quando alcuni anni fa, durante un incontro fra operatori scolastici, un’insegnante di scuola media superiore, parlando di colleghi, ha usato l’espressione “braccia rubate all’agricoltura”, ho espresso la mia profonda indignazione ad alta voce. Sono figlio di contadini (agricoltori) e da anni, quando entro nelle classi delle mie scuole, sono solito chiedere ai ragazzi chi di loro proviene dalla campagna. Generalmente si alzano poche mani. Poi quando dico loro che essere figli di contadini è una grande cosa e che devono essere orgogliosi di ciò, ecco che le mani aumentano. Nel comune modo di pensare resiste l’idea che essere contadini equivale ad essere ignoranti. Purtroppo è uno dei pregiudizi che ancora oggi la scuola stessa perpetua. Eppure l’arte di coltivare la terra, che, storicamente, è stata fra le più disprezzate, ha tanto da insegnare a tutti noi.Una piccola riflessione a proposito di orti in ospedale. Prima di morire, mio padre Giorgio, che per tutta la vita è vissuto in campagna facendo l’agricoltore, ha trascorso quasi due mesi in ospedale. Mi è venuto spontaneo chiedermi: perché in ogni ospedale non si organizza un orto? Un orto ben curato, con tanti vialetti e tante aiuole di verdure, ortaggi e fiori. Un orto che abbia anche una bella serra di vetro per l’inverno e una zona dedicata al compost, elemento essenziale per cibare il terreno. Un orto ricco di erbe officinali (dette anche medicinali) e piante che favoriscano la riproduzione e la presenza di farfalle. Un orto con tanti alberi da frutto. Frutti per tutti i mesi dell’anno. Un orto vorrebbe dire, per chi resta pochi o tanti giorni in ospedale, riconoscersi in un elemento essenziale della propria terra, cioè nel luogo in cui viviamo, fatto di storia, di tradizioni, di cultura, di memoria. E così noi tutti (anche chi non è costretto in ospedale) potremmo beneficiare sia della semplice visione di questo piccolo “paradiso terrestre”, sia della possibilità di fare qualche lavoro nell’orto. Forse così avremmo bisogno di meno medicine e guariremmo più in fretta.

Tratto dal libro La pedagogia della lumaca. Per una scuola lenta e non violenta.

La contadinanza

Quanto fin qui detto a proposito della terra mi porta spontaneo al ripensare al concetto di “cittadinanza attiva”. È ormai giunto il tempo che s’inizi a usare anche quello di “contadinanza attiva”. Dal Vocabolario della lingua italiana nella versione Devoto-Oli ecco la definizione del sostantivo femminile “cittadinanza”: “Vincolo di appartenenza a uno stato, richiesto e documentato per il godimento di diritti e l’assoggettamento a particolari oneri”. A livello culturale, a partire dalla Rivoluzione francese, la parola cittadino è diventata sinonimo di “persona con pari e pieni diritti”. “Cittadinanza attiva” è oggi sinonimo di un coinvolgimento nella vita della propria comunità d’appartenenza, assumendo in questa un ruolo di responsabilità e facendo scelte di condivisione. Nel vocabolario non esiste invece il termine “contadinanza” e quindi nessuno ha mai parlato di “contadinanza attiva”. Esiste chiaramente il sostantivo maschile “contadino”, che sta per “chi lavora la terra, specificamente per conto di un padrone. In termini spregiativi: persona rozza e goffa”. Dobbiamo rovesciare questo clima culturale che, ancora oggi, è presente nel mondo scolastico. Essere abitanti o lavoratori della terra non è qualcosa di spregevole. Siamo tutti “contadini di questa terra” e abbiamo tutti “diritto alla contadinanza”.

Tratto dal libro La pedagogia della lumaca. Per una scuola lenta e non violenta.

Chi scrive i sussidiari?

Un vero capolavoro letterario, in questo senso, è sicuramente la pagina che i ragazzi della scuola di Barbiana dedicano, in Lettera a una professoressa, alla “cultura contadina”. Sui monti non ci possiamo stare. Nei campi siamo troppi. Tutti gli economisti sono d’accordo su questo punto. E se anche non fossero? Si metta nei panni dei nostri genitori. Lei non permetterebbe che suo figlio restasse tagliato fuori. Dunque ci dovete accogliere. Ma non come cittadini di seconda buoni solo per manovale. Ogni popolo ha la sua cultura e nessun popolo ce n’ha meno di un altro. La nostra è un dono che vi portiamo. Un po’ di vita nell’arido dei vostri libri scritti da gente che ha letto solo libri. Se si sfoglia un sussidiario è tutto piante, animali, stagioni. Sembra che possa scriverlo soltanto un contadino. Invece gli autori escono dalla vostra scuola. Basta guardare le figure: contadini mancini, vanghe tonde, zappe a uncinetto, fabbri con gli arnesi dei romani, ciliegi con le foglie di susini. La mia maestra di prima elementare mi disse: “Monta su quell’albero e coglimi due ciliegie”. Quando lo seppe la mia mamma disse: “O chi le ha dato la patente?”. Avete dato l’abilitazione a lei e la negate a me che d’albero non gliel’ho mai dato a nessuno in vita mia. Li conosco per nome uno a uno. Conosco anche i sormenti. Li ho potati, li ho raccolti, ci ho cotto il pane. Lei su un compito m’ha segnato sormenti come errore. Sostiene che si dice sarmenti perché lo dicevano i latini. Poi di nascosto va a cercare sul vocabolario cosa sono. Anche sugli uomini ne sapete meno di noi. L’ascensore è una macchina per ignorare i coinquilini. L’automobile per ignorare la gente che va in tram. Il telefono per non vedere in faccia e non entrare in casa. Forse lei no, ma i suoi ragazzi che sanno Cicerone di quanti vivi conoscono la famiglia da vicino? Di quanti sono entrati in cucina? A quanti hanno fatto nottata? Di quanti hanno portato in spalla i morti? Su quanti possono far conto in caso di bisogno? Se non ci fosse stata l’alluvione non saprebbero ancora quanti sono nella famiglia al piano terreno. Io con quei compagni sono stato a scuola un anno e della loro casa non so nulla. Eppure non si chetano mai. Spesso sovrappongono le voci e seguitano a parlare come se niente fosse. Tanto ognuno ascolta solo sé stesso. A lei le rombano sotto le finestre mille motori al giorno. Non sa chi sono ne dove vanno. Io so leggere i suoni di questa valle per chilometri intorno. Questo motore lontano è Nevio, che va alla stazione un po’ in ritardo. Vuole che le dica tutto su centinaia di creature, decine di famiglie, parentele, legami? Lei se parla con un operaio sbaglia tutto: le parole, il tono, gli scherzi. Io so cosa pensa un montanaro quando sta zitto e so la cosa che pensa mentre ne dice un’altra. Questa è la cultura che avrebbero voluto avere i poeti che lei ama. Nove decimi del mondo l’hanno e nessuno è riuscito a scriverla, dipingerla, filmarla. Siate umili almeno. La vostra cultura ha lacune grandi come le nostre. Forse più grandi. Certo più dannose per un maestro elementare.
Tratto dal libro La pedagogia della lumaca. Per una scuola lenta e non violenta.

STOP ALLA FOTOCOPIA

DISEGNO CREATIVO O FOTOCOPIA RIPETITIVA
Il disegno è sicuramente uno dei primi linguaggi utilizzati dall’uomo.
Pensiamo ai disegni realizzati 17.000 anni fa nelle grotte di Lascaux, in Francia.
Oppure i “camuni”, cioè i graffiti sulle rocce della Val Camonica. Sono tracce di uomini che nella “preistoria” hanno marcato e segnato la “loro” storia. Pensiamo anche a quella forma originalissima di alfabeto “geroglifico” che ci è stato lasciato in eredità dagli antichi egizi.
Le stupende stilizzazioni egizie di teste umane, animali vari, uccelli, piante e fiori… ci fanno assaporare contemporaneamente il gusto della scrittura e del disegno.

Potremmo continuare e arrivare all’arte moderna, passando per le civiltà del prima e del dopo Cristo.
La tradizione cristiana ci ha lasciato alcune forme di pittura che sono, nel contempo, la rappresentazione popolare della “parola di Dio”.
Pensiamo alle immagini di Giotto nelle chiese di Assisi o ai mosaici delle basiliche ravennati.
E questo solo restando ad alcuni esempi italiani.

IL DISEGNO NELL’ESPERIENZA DI UN BAMBINO
Ciò che accade nella storia degli uomini, accade nella storia di ogni singolo uomo. Se avessimo la pazienza di osservare un bambino dal primo anno di vita alla maturità, vedremmo ripercorrere nella sua esperienza rappresentativa l’esperienza dell’umanità.
Scarabocchi, graffiti, cerchi, linee, croci, semplici icone… fino ad arrivare a un “di-segno” definito e preciso.
E avremo così modo di capire che ogni bambino rappresenta la realtà in cui è immerso.
Tutti i bimbi e le bimbe con cui ho lavorato in questi anni sono arrivati a ciò.
Purtroppo quello che spesso accade nella scuola dell’obbligo è invece un processo inverso.
Si passa da una capacità spontanea di rappresentare il nostro intorno e le nostre fantastiche proiezioni a una costrizione pittorica che uccide la voglia e il piacere di disegnare.
E così la maggioranza degli adulti giunge ad allontanarsi dal disegno.
Molte volte, durante corsi di formazione o aggiornamento, alla domanda rivolta agli insegnanti sulla loro abilità pittorica, rispondono in maniera lapidaria: “Non sono capace di disegnare”. Quando poi, spontaneamente, qualcuno di noi – da adulto – disegna qualcosa su un foglio di carta, poiché il livello di capacità rappresentativa è rimasta alla fase degli 11-13 anni, tenderà a riprodurre quei disegni che faceva da ragazzino.
È così che anche in questo campo – purtroppo spesso grazie alla scuola – nasce una netta distinzione fra il “volgo” e il “tecnico”, fra la “gente comune” e gli “artisti”.

FOTOCOPIE E SCHEDE, OVVERO LA MORTE DELL’ESPRESSIONE ARTISTICA
L’introduzione massiccia nelle scuole della fotocopiatrice e di quella che io definisco “didattica per schede” sta contribuendo all’annullamento delle capacità artistiche dei ragazzi. Oggi, fin dalla scuola d’infanzia, passando per le primarie, e giungendo alle secondarie, si fa un uso spropositato (direi quasi spregiudicato) delle fotocopie. Sono fotocopie di tutti i tipi: immagini in sequenza che devono essere ritagliate e ricomposte, disegni già fatti da colorare, testi da completare con la parola, il numero o la frase giusta. Quelli che un tempo erano divertenti giochi, come ad esempio un labirinto da percorrere con la matita o piccole aree puntate da colorare per ottenere un’immagine precisa, oggi sono divenuti una vera e propria ossessione dei bambini. Alcuni genitori mi hanno anche riferito dello stress subito dai figli quando anche al catechismo si sono ritrovati una scheda da colorare. Nella scheda fotocopiata da colorare c’è essenzialmente l’uccisione della creatività, soprattutto quando queste divengono gli unici momenti di espressione artistica del bambino. Dov’è finita l’originalità, la creatività, l’unicità? Chiunque ha a che fare con una scuola dell’infanzia capisce perfettamente se la strada che si sta percorrendo in quella scuola va nella direzione dell’assassinio della creatività: se c’è uno stress di questo genere. Basta osservare i prodotti artistici dei bambini appesi sui muri. Se ci troviamo di fronte a delle repliche, a delle clonazioni dello stesso disegno, è sicuro che lì esiste il pericolo dello stress da fotocopia. Alle scuole primarie questo si capisce soprattutto dai quaderni. Fatevi dare da alcuni bambini i loro quaderni e apriteli. Ci si accorge subito se in quella classe viene incentivata l’originalità dei bambini oppure si tende alla “pedagogia della fotocopia”.


DISEGNARE IN MANIERA ORIGINALE
L’architetto, ecologista e artista Friedensreich Hundertwasser, nel 1949, a San Gimignano, dipinge I girasoli, un quadro volontariamente realizzato in maniera semplice.
Con quel dipinto vuol dimostrare (e ci riesce) che “tutti possono dipingere”.
È importante porre i bambini e le bambine nelle condizioni di esprimersi al meglio, perché poi un giorno, anche da adulti, possano avere il piacere di dipingere.
Per questo bisogna fare un’attenta ricerca sui materiali utilizzabili.
Il supporto su cui si disegna, sia esso cartoncino, legno, tela, cartone o fogli di carta è fondamentale, come sono importanti gli strumenti e i materiali utilizzati nonché la loro qualità: gessetti, pastelli, carboncini, chine, tempere, acquerelli, acrilici, oli, matite, pennelli e pennini possono essere di qualità diversissime.
Una buona attrezzatura costa sicuramente di più, ma se insegniamo ai bambini e alle bambini a curarla e conservarla bene, avranno sicuramente una durata non breve.
Col tempo la scelta di materiali di qualità si rivela un risparmio, oltre a essere una maniera per incentivare “buoni risultati” nei lavori degli scolari.
Anche per noi adulti è utile fare un itinerario d’avvicinamento al disegno.
Aboliamo la gomma e il segno a matita che delimita il disegno e prendendo in mano qualsiasi strumento da disegno, lasciamo viaggiare liberamente la nostra mano. Non preoccupiamoci della resa. Se ci può essere d’aiuto pensiamo all’esperienza di grandi artisti che hanno ripercorso l’itinerario artistico dei bambini: Picasso, Mirò, Chagall, Kandinskj, Pollock, Baj… Passiamo per primi noi educatori e insegnanti attraverso quest’esperienza e scopriremo così quanto sia inutile dire a un bambino: “Dovevi disegnare così…; ma guarda che hai sbagliato il colore…”.
Ci verrà poi spontaneo disegnare quanto ci è attorno: case, monti, fiumi, alberi, persone, tramonti, sogni. È il disegno dei luoghi di vita in cui siamo immersi.

Scrivono sulla PEDAGOGIA DELLA LUMACA…sulle tracce di Gianfranco
Articolo di Federica Melucci

La vocazione di errare: il mestiere dei maestri

Camminare rischiara la mente,

conforta il cuore e cura il corpo.

Paolo Rumiz

Fa che il tuo seme, qualunque esso sia,

diventi sempre un piccolo, unico,

straordinario giardino!

I.C.Felline

Errare letteralmente significa vagare, deviare, smarrirsi, andare qua e là senza direzione o meta certa. Parole che oggi al sol pensiero spaventano, infatti come ci si può perdere dove per ogni problema c’è una soluzione o un sostegno tecnologico che ci assiste, evitando ogni possibile errore o smarrimento? Come si può solo pensare di avere tempo per perdersi visto che tutto è scandito da agende fitte di impegni e dal momento che le nostre vite iperprogrammate si muovono dentro circuiti chiusi, monotoni e sempre uguali?

E se ciò dovesse capitare, la nostra scarsa abitudine al problem solving, ad assumerci rischi e ad andare oltre le nostre “sane” abitudini, ci porterebbe ad andare facilmente in crisi.

In realtà il perdersi, l’andare fuori oltre il noto, rappresenta e ha rappresentato per l’uomo una necessità di fondamentale importanza.

L’uomo infatti, nei secoli, ha avuto una proficua curiosità per l’ignoto, grazie alla quale ha ampliato i suoi riferimenti, i suoi confini, le sue competenze attive, offrendo a tutti noi, nuove generazioni, un bagaglio e un patrimonio di conoscenze.

Ne deduciamo che nei secoli il noto “cogito ergo sum” cartesiano si poteva tradurre anche in “erro ergo sum”: mi sbaglio, mi perdo, riformulo e scopro nuove soluzioni determinando così nuove esperienze e quindi conoscenze.

Quel sentimento di smarrimento e quell’abitudine a correre i rischi che per noi sono così tanto nemici, hanno invece portato gli uomini antichi alla sopravvivenza e al loro perdurare nei secoli e sono stati da stimolo per la storia.

L’errare dell’uomo, il viaggio verso mete sconosciute, sbagliando o uscendo dal seminato, ha determinato la scoperta di nuove geografie, non solo del territorio ma anche antropologiche, dando così origine a quel mosaico, a quello scambio di occhi, bocche, nasi e pelle da cui deriviamo.

Tutto ciò ha avuto e ha tuttora delle conseguenze su di noi, sul nostro modo di essere e di agire e soprattutto su come alleviamo ed educhiamo i nostri piccoli.

Perché allora l’errare, che è un elemento cosi fondamentale per la conoscenza scientifica e per la vita di ognuno di noi, è nel tempo diventato sinonimo di qualcosa di sbagliato da cui fuggire?

Le parole che esprimono i nostri pensieri possono, a volte, avere più significati che ci aiutano a capire. Il verbo errare può anche significare sbagliare, ingannarsi, commettere una colpa, peccare. Ne deduciamo quindi che, nella storia, questa parola così preziosa ha assunto al contrario un’accezione negativa, che ci è stata inculcata come una preghiera. All’errare è stato associato un sentimento di vergogna, culturalmente indotto, che ci ha portato a crescere seguendo il mito della perfezione e della paura del giudizio altrui ma anche di quello interiore.

Questo allontanamento dal senso originario della parola potrebbe dipendere dal rapporto diffidente, quasi conflittuale, che abbiamo assunto nei confronti del CORPO, del sentire, spostando la nostra attenzione, i nostri sforzi, le nostre aspettative esclusivamente nei confronti della conoscenza e della cultura, del razionale, della mente e della performance, negando o dimenticando la voce del corpo e la sua libertà. Chi erra, chi si perde, chi sbaglia non è all’altezza, appartiene a coloro che non potranno raggiungere le alte vette della società: ecco dunque l’intolleranza verso il diverso, il deviante, ecco l’abbandono delle mani e del loro fare, dell’artigianato, dei mestieri antichi non più desiderabili socialmente, del dialetto, del corpo che invece abita e racconta il mondo, che fatica e produce, che si sporca di terra.

La figura del maestro n’è stata fortemente condizionata diventando negli anni una figura autoritaria e selettiva e dimenticando il significato profondo dell’educazione, l’importanza dell’epokè e del fatto che ogni bambino arriva con una storia, un bagaglio di conoscenze ed è solo esperendo, giocando e facendo che lui stesso diventa produttore di cultura e di pensiero. Così gli alunni sono diventati quei famosi vasi vuoti da riempire e tutto ciò ha dato origine a una scuola per pochi, elitaria e non democratica che non sollecitava lo sviluppo intellettuale ma abituava a ripetere senza pensare, offrendo un pacchetto culturale già prestabilito, creando persone mediocri, incapaci di riflettere e di avere un pensiero critico. Il grande assente ovviamente era il corpo, fatto che portava all’inevitabile conseguenza di formare generazioni prive di senso pratico.

Grandi pedagogisti e maestri hanno coraggiosamente scardinato questo sistema: Maria Montessori con il suo SIGNOR ERRORE, Gianni Rodari e il suo LIBRO DEGLI ERRORI e la GRAMMATICA DELLA FANTASIA, Mario Lodi e il suo CORREGGERE è una RESPONSABILITA’, Alberto Manzi e il suo FA QUEL CHE PUO’, QUEL CHE NON PUO’ NON FA. In ognuno di loro l’errore è diventato un’opportunità da sperimentare con naturalezza per arrivare alla crescita intellettuale e umana del bambino, in una relazione di RECIPROCITA’ dove l’adulto fa un passo indietro (recus) e spinge avanti il bambino (procus).

Gianfranco Zavalloni, che da tutti loro ha tratto ispirazione, riconosce nell’errore una grande forza creatrice, c’è in lui una vera e propria vocazione per l’errare che lo ha portato a dare VOCE all’errore.

L’errore è generatore di nuove risposte, è apertura a nuove strade, ci muove verso nuove soluzioni che aprono alla curiosità, al pensiero originale e divergente.

In Zavalloni l’errore viene trasformato in uno strumento didattico fondamentale, divertente e ugualitario: tutti sbagliano, anche il maestro. L’errore non è più strumento di umiliazione e di annientamento dell’autostima ma, all’opposto, un punto da cui partire per aggiustare il tiro o per inventare altro, in un’ottica di non giudizio. Come nell’Esame dei bocciati, dell’amatissimo libro “Pippi Calzelunghe”, Pippi offre a tutti i bimbi ritenuti inadeguati una seconda opportunità e lo fa creando una relazione di aiuto reciproco, divertente e coinvolgente, così anche in Zavalloni è possibile fare scuola senza mortificazioni, senza fermarsi allo sguardo del momento, senza la necessità di etichettare, ma con la consapevolezza che la scuola può e deve accompagnare tutti nel processo evolutivo di crescita, mettendo in luce i punti di forza di ognuno e cercando di stimolare il superamento delle difficoltà.

Zavalloni fa un passo ulteriore. Crea infatti una sorta di crasi tra errore ed errare, così in ogni suo libro o testo troviamo più riferimenti dove, a bene guardare, la passeggiata, la gita, la biciclettata, il viaggio diventano non solo un arricchimento dell’offerta formativa della scuola e un’abitudine distensiva e interessante, ma anche metafore di come vivere la scuola dentro: il passo incerto di uno diventa il passo incerto di tutti e, alla medesima maniera, la meta raggiunta da uno diventa la vittoria di tutti, in un insieme corale, cooperativo e non competitivo, dove l’adulto aspetta, ma il bimbo più veloce non perde tempo e contestualmente impara il rispetto della diversità che lo renderà un cittadino migliore, dotato di empatia e intelligenza emotiva.

La strada è la medesima, ma il bagaglio o i pesi non sono gli stessi, il maestro offre a tutti mezzi e attrezzatura, ma i bambini non sono tutti uguali ANZI sono tutti diversi. Ecco allora che entra in gioco l’uso di tanti linguaggi per arrivare a dialogare con ognuno e a percorrere la strada senza troppi sassolini nella scarpa.

Nei viaggi chiede di affinare il nostro guardare, di allenare lo sguardo e l’ascolto, e allertare tutti i sensi, di vivere la bellezza della natura e l’avventura; allo stesso modo ci dice che un buon maestro deve quotidianamente saper annusare l’aria che tira in classe e saper virare anche dal programma o dalla lezione preparata se il momento e le circostanze lo richiedono, in un’ottica di flessibilità e di ascolto dei bisogni, fino ad arrivare a gioire dell’imprevisto, senza la paura di restare indietro rispetto alla propria tabella di marcia con la consapevolezza che serve TEMPO.

Come in una camminata, anche a scuola, l’impegno e la fatica non sono mai di uno ma di tutti, di chi guida e di chi viene guidato, e così i meriti. E’ in questo sentire e in questa consapevolezza comune che si creano i legami e le amicizie, che l’aria si fa leggera, che il passo e il respiro diventano unici e si riesce a ridere degli errori propri e altrui, ma non si deride e non si identifica l’errore con l’errante. Così l’apprendimento, coinvolgendo la sfera affettiva, risulterà più efficace e duraturo.

Suggerisce ai maestri e alle maestre di preparare la “valigia dell’errore”, piena di sorrisi, piena di domande e di tempo per rispiegare e riformulare nuove ipotesi, per attivare strategie didattiche di rallentamento.

In questa valigia, per i loro piccoli viaggiatori, i maestri e le maestre predisporranno anche esempi pratici, lavori e manufatti manuali, disegni, rime, poesie e canzoni per meglio ricordare, letture ad alta voce, esercizio, attenzione, pazienza, ci sarà tempo per dialogare e per utilizzare linguaggi diversi. Ci saranno soprattutto giochi e momenti immersi all’aria aperta a contatto con la natura, con il corpo che agisce e gioisce, per una scuola realmente capace di accogliere e motivare tutti, per una scuola che sia un concentrato di esperienze significative, per una scuola dove i bambini vadano volentieri, per una scuola-comunità.

Tratto da I quaderni della lumaca errare

Fulmino Ed. 2019

Per chi desidera leggere i libri può contattare www.emi.it oppure acquistarli nelle librerie italiane.

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