SCUOLA CREATIVA . sito dedicato a Gianfranco Zavalloni, intuizioni ... il suo cammino... per chi vuole proseguire
Giochi e Giocattoli

Giochi e Giocattoli

1 Mondo di Giocattoli 1000 Combinazioni

mostra didattica sui giocattoli dei popoli, strumenti di educazione e conoscenza fra culture ed etnie

Dice Leone Tolstoj che se vuoi essere universale, parla del tuo villaggio. 
Noi diciamo: «se vuoi essere universale, dicci come giocano i bambini e le bambine del tuo villaggio.» 
I giocattoli come strumenti di educazione e conoscenza interculturale e multietnica sono il desiderio di conoscere e far conoscere in che modo e con quali oggetti giocano i bambini e le bambine nelle strade, nelle piazze e nei cortili di tutto il mondo. 
Vogliamo con questa mostra far capire che c’è un filo invisibile che lega l’esperienza di gioco dei bambini dei 5 continenti e che possiamo definire questo filo la cultura ludica planetaria.

Sono giocattoli della tradizione popolare, già ampiamente studiati da Huizinga, Winnicott, Piaget, Erikson, Perempruner. Abbiamo messo in evidenza il diverso approccio che c’è fra il comprare un giocattolo o il costruirlo insieme, adulti e bambini, sperimentando direttamente i diversi materiale e utilizzando le mani e gli strumenti di lavoro. 
Ai dieci giocattoli, fra i più giocati nelle varie tradizioni etniche, abbiamo aggiunto centinaia di altri giocattoli, che sono nati soprattutto come combinazione e innovazione dei primi dieci. 
I giocattoli di questa mostra non sono semplice fantasia, ma sono stati realizzati, ed è possibile vederli e giocarli nella bottega  di “mastro Nocciola”.È grazie al suo lavoro e alla sua passione che oggi, in tante città del mondo, qualcuno sogna e costruisce con le proprie mani giocattoli. 
E se siamo buoni osservatori ci accorgeremo che in ogni luogo c’è un mastro Nocciola.

MOSTRA E LIBRO SONO STATI CURATI DA
Roberto Papetti (animatore) del centro La Lucertola
Gioco, Natura e Creatività di Ravenna
Gianfranco Zavalloni
Ecoistituto delle Tecnologie Appropriate di Cesena

I TEMI DELLA MOSTRA

  1. BAMBOLE E BAMBOLONI

Le bambine vedono nelle bambole un modello incontrastato di femminilità e di fertilità e le usano per fare tutti quei giochi che poi permetteranno loro di integrarsi in modelli culturali carichi di indici sociali, ruoli e valenze consumistiche. 
La bambola non sta sul piedistallo. Bisogna tenerla in mano, toccarla, parlarle e rispondere per lei- é un giocattolo che richiede da parte dei partecipanti interventi attivi, processi di identificazione, fantasie e teatralizzazione. 
Ci sono bambole meravigliosamente elaborate, ma le migliori sono quelle non troppo somiglianti ai modelli reali, quelle, per intenderci, non eccessivamente curate nei particolari. 
Il bambolone riempito di paglia dal nome suggestivo Pelele è un gioco molto antico che si fa facendo saltare un fantoccio su una coperta tenuta da quattro o più bambini. Il fantoccio di solito rappresenta una persona detestata e impopolare. là molto praticato dai bambini e dalle ragazze nei paesi di lingua spagnola con il significato particolare di esprimere risentimento nei confronti dell’arroganza maschile. Facendolo saltare si accennano canzoni o filastrocche scherzose che dicono: «Il pelele è volato. 
Cosa dobbiamo dargli ? Sugo di lumaca che procura coma”

  1. FISCHIETTI
  2. IL BILBOQUET
  3. IL BURATTINO
  4. L’AQUILONE
  5. LA CULLA
  6. LA PALLA
  7. LA TROTTOLA
  8. MACCHININE E BICICLETTE
  9. PUZZLE E TANGRAM

Avventure di gioco

di Roberto Papetti

Che cos’è il gioco e perché si gioca?

Molti illustri studiosi si sono cimentati con questi interrogativi, ma nessu-
no è riuscito a formulare la risposta definitiva. La più semplice ed esatta definizione del gioco è tautologica: il gioco è il gioco. Il gioco è in effetti
un paradosso: è liberatorio ma insieme regolato, unisce ma insieme sepa-
ra il reale dall’immaginario in cui le cose non sono pur rimanendo quel-
le che sono, è divertimento ma insieme bisogna prenderlo sul serio per divertirsi, non è lavoro ma insieme è indispensabile per l’attività produt-
tiva. In questa superba paradossalità sta il suo valore ma anche il suo peri-
colo, perché il gioco è collegato al sogno, alla fantasticheria, al delirio: con
il ludico si allude, ma anche si collude e delude. In questo senso il gioco
è anche uno stile comunicativo perenne, una pratica per salti di livelli del discorso e di duplicazione umoristica della parola e dei comportamenti.
Credo che questa naturale tendenza a giocare con le cose, le parole, le 47 persone, il mondo in generale, questo abito mentale e la ricerca dei suoi significati con l’applicazione educativa e pedagogica, sia la prima ragione dell’incontro con Gianfranco e ciò che ha fatto nascere una amicizia e un lavoro lungo 30 anni.
Giocare è “tipicamente” infantile, è l’esercizio e l’apprendimento delle abilità necessarie per la sopravvivenza nella vita adulta. Da Froebel, uno dei padri della pedagogia di ieri ai più bravi educatori di oggi, queste abi- lità sono riconosciute al bambino, ma l’applicazione, la pratica del gioco è sempre negata nei fatti. Nel mondo dell’educazione, guai a concedere spazi e tempi di gioco in autonomia, sempre e in modo asfissiante, controllo disciplinare.
Il comune impegno, la difesa a testa bassa e muso duro del diritto al gioco, nelle scuole e nelle istituzione, ha preso forma di laboratori formativi, scolastici e extrascolastici, mostre, pubblicazioni di libri e rubriche su riviste educative, progetti di riqualificazione urbanistica, valorizzazione di spazi per il gioco all’interno delle città, manifesti, produzione di giocattoli e strumenti didattici. A testa bassa si è detto, aperti e sperimentali ma sempre in modo buffo e giochereccio. Gianfranco alias Pippi, maschera solare, comunque composta e seria, Roberto alias Baldazar, maschera seria ma subitamente scomposta nell’attimo ludico. Uno maestro di scuola, dirigente scolastico, l’altro responsabile di un centro di ecologia per bambini, promotore di un museo del giocattolo: insieme Flic e Floc, Stanlio e Olio, Don Chisciotte e Sancio Panza del gioco con i bambini e per i bambini.

Due aspetti di una stessa maschera, la figura del giocherellone, il pazzariello e burlone, il trikster che con i suoi poteri magici ne combina di tutti i colori, ma sempre incomprensibile, perché la sua azione non corrisponde a un desiderio definito e come il bambino non ha ancora idee preci- se sugli oggetti socialmente desiderabili e gioca con tutto quello che capita sottomano. Di questo impegno severamente scanzonato forse ha senso esporre qui alcuni momenti che raccontano scoperte ed esperienze vissute e quel dare e ricevere insieme, che è la fortuna e il dono dell’amicizia. sempre in modo buffo e giochereccio. Gianfranco alias Pippi, maschera solare, comunque composta e seria, Roberto alias Baldazar, maschera seria ma subitamente scomposta nell’attimo ludico. Uno maestro di scuola, dirigente scolastico, l’altro responsabile di un centro di ecologia per bambini, promotore di un museo del giocattolo: insieme Flic e Floc, Stanlio e Olio, Don Chisciotte e Sancio Panza del gioco con i bambini e per i bambini. Due aspetti di una stessa maschera, la figura del giocherellone, il pazza- riello e burlone, il trikster che con i suoi poteri magici ne combina di tutti i colori, ma sempre incomprensibile, perché la sua azione non corrispon- de a un desiderio definito e come il bambino non ha ancora idee preci- se sugli oggetti socialmente desiderabili e gioca con tutto quello che capi- ta sottomano. Di questo impegno severamente scanzonato forse ha senso esporre qui alcuni momenti che raccontano scoperte ed esperien- ze vissute e quel dare e ricevere insieme, che è la fortuna e il dono del- l’amicizia.

La ricerca di mastri giocattolai

La comune attenzione per il gioco come fenomeno culturale e sociale “universale”, di grande rilevanza filosofica ma soprattutto importante dal punto di vista educativo e come diritto infantile, dovrebbe accomunare tutti quelli che si occupano di bambini. Gianfranco affermava che l’espe- rienza centrale della vita dei bambini è il gioco. Nella sua idea di luogo educativo ideale ( anche scolastico ), un terzo della giornata dovrebbe essere dedicato al gioco, un terzo all’attività manuale e al laboratorio, un terzo agli apprendimenti di base. Ogni volta che incontrava persone che condividevano queste idee la relazione prendeva una piega gioiosa, oltre che spirituale.

Piacevano a Gianfranco i bambini quando giocano e si costruiscono i loro giocattoli, le botteghe degli artigiani, ogni attrezzo di lavoro che serve per
fare cose utili e inutili, le biciclette, i burattini e i burattinai, le ferramen-
ta, le persone che muovono le mani e la mente insieme. Per questa
ragione la frequentazione e la ricerca dei maestri della manualità creati-
va in funzione del gioco, era una avventura che spesso diventava ricerca sistematica da fare insieme o singolarmente raccontando poi le scoperte. 49 Spesso queste ricerche portavano a conoscere artigiani e artisti che fini-

vano per diventare amici, come il maestro Medio Calderoni, il poeta degli aquiloni di Ravenna che costruiva con carta e canna di fiume, il grande Catin, argentino che a Mariana costruiva marionette di zucca, il meravi- glioso Giancarlo Perempruner, ideatore del centro della Cultura Ludica di Torino, che costruiva giocattoli meravigliosi con i chiodi o le cassette da frutta, o Joao Piaxao, il malandro e barbone, costruttore di bacchette di fata, un senza dimora che viveva nelle strade prossime allo stadio Maracana a Rio de Janeiro. Era una ricerca comune, si partiva quasi sem- pre da esili notizie, i maestri giocattolai non fanno vetrina, vivono appar- tati, sono miti, tranquilli e un pò asociali.

Nel 2009 in Brasile, finalmente insieme dopo un anno di lontananza, Gianfranco ha molte proposte di ricerca. Sapevo di un’agenda piena di incontri, c’era da andare a trovare un artigiano di Belo Horizonte che con i tappini di latta a corona faceva squadre di pedine per il calcetto da tavo- lo, un artista che modificava le forchette alla Bruno Munari, un tipo che faceva borsette con le spolette di alluminio delle lattine e i mercatinini nei posti più strani di Belo Horizonte e Rio de Janeiro. Un pomeriggio di metà ottobre, l’estate brasiliana appena iniziata, con la gente della città a prendere il sole nelle bellissime spiagge di Rio, decidiamo di andare nel quartiere coloniale di Santa Teresa a Rio, alla ricerca del mastro giocat- tolaio, un tale Getulio Damato, di cui s’era sentito dire lavorasse in un vagone di un tram.

Già il nome Getulio, è una promessa di allegria! Lasciamo le sabbie bian- che e le onde dell’Atlantico e ci incamminiamo per strade chiassose. Dietro la cattedrale della città cerchiamo la stazione del piccolo tram che porta a Santa Teresa. Saliamo su un trenino con due carrozze, un pitto- resco rottame dell’ottocento, partiamo e procediamo a strappi sulle rotaie strette, ora accanto ai muri delle case, ora paralleli alle stradelle che portano sulla cima della collina. Durante la corsa i passeggeri salgo- no e scendono dalle predelle del tram in movimento tanto questo pro- cede a passo di lumaca. Più si sale più si allarga la vista sul paesaggio, giù in basso Rio de Janeiro, il porto, il mare, le insenature, il Pan di Zucchero, le favelas tutte attorno. Nel quartiere degli artigiani scendiamo, cammi-

50 niamo per via Leopoldo Froes fino ad una piazzetta dove staziona un pic- colo vagone dello stesso trenino che ci ha portato fin là, dipinto di gial- lo, con la scritta, “Bozolandia”.
Davanti a noi il laboratorio di Getulio Damato, compresso in un vagon- cino, esuberante e poverissimo, esultante di oggetti colorati che dicono senza bisogno di parole l’intraprendenza fantastica di chi vive inventando con niente.

Ogni giocattolo ha un nome, tra le finestrelle della carrozza cartelli espongono i pensieri dell’artigiano, dicono l’affetto che lui sente per il suo paese, le gioie e i dolori dell’amore, la devozione familiare; sono aggiun- te di pensiero al costruito e inventato, scarti della memoria e dell’anima. Ecco il giocattolaio e il suo mondo, il ”capolavoro”, non tanto per qual- che oggetto portatore di un’aurea sublime ma per l’atto, il laboratorio di strada in se stesso, multicolore e carioca, un cestone di frutta ludico-tro- picale sul cucuzzolo di incantate atmosfere brasiliane.

Gianfranco intreccia un dialogo con l’ometto che se ne sta rintanato den- tro il suo trabiccolo continuando a lavorare a occhi bassi. Getulio, mina- tore di origine italiana, “brinca figuras de potes, embalagem, velhos ele-

trònicos,” inventa da contenitori di plastica, pezzi di elettronica e altri materiali di imballaggio.
Faccio il giro del laboratorio-carrozza, i giocattoli sono prevalentemente pupazzi e piccole scenografie di vita popolare. Le stesse figure, ma di ceramica, avevamo visto nel museo di Antropologia di Rio, sono i perso- naggi dell’epica del Grande Sertao popolato di mandrie, santoni, banditi “jagunco”, uomini dai nomi altisonanti come eroi di saghe romantiche e remote. “Ah, il buon modo di vivere del jagunco. Così è la vita riparata, vissuta per il di sopra. Chi si trova a jaguncare, non vede, né fa caso alla povertà di tutti, pulviscolo. Vossignoria sa: tanta povertà generale, gente nella fatica o nel disanimo: il povero deve avere un triste amore per l’onestà”. 1 Getulio è radicato al suo mondo natio, costruisce inni alla vita in un lin- guaggio che non è un fatto solo comunicativo ma la venerazione di una tradizione. Costruisce giocattoli in presa diretta, davanti ai nostri occhi meravigliati, usa con velocità e precisione grosse forbici da lattoniere, martello, chiodi, tenaglie e pochi altri attrezzi. Parlando taglia il bordo di una lamiera di plastica, martella alcune parti, dopo pochi minuti presenta la sua nuova creazione: “no ta apparente un volto?

Giocattoli creativi, ovvero perché fare un manualetto di costruzione di giocattoli.
I bambini sanno che le cose possono essere differenti. Un bambino, rac- conta Rubem Alves, pedagogista, filosofo e teologo che Gianfranco ha conosciuto di persona, usava una trombetta di plastica rossa come un cellulare: con una punta accostata all’orecchio e l’altra alla bocca conver- sava con un amico immaginario. Sapeva che per un principio di realtà quella cosa, quel “giocattolo giocato” era uno strumento per suonare ma anche un telefono, per lui il giocattolo, non era opaco, era quello che la sua immaginazione vedeva. Infatti l’immaginazione vede le cose “altre”, tutto il reale è invenzione. Rubem Alves aggiungeva: “Questa è poesia”, cioè capacità di guardare come fanno i poeti quando usano le metafore. Qualunque cosa è una y, una forcella, un incrocio tra due mondi, una biforcazione. Si può andare in un senso o in un altro.

Senza questa funzione infantile la poesia non sarebbe possibile. Le cose prendono naturalmente una deriva metaforica o metonimica. L’amore è
una metafora, nasce nel momento in cui il volto dell’amata o dell’amato
diventa una figura diversa da quello che è. Il poeta Rilke guardava il volto dell’amata, vedeva e nominava stelle, “costellazioni tranquille”. La poesia

è nelle cose e ogni cosa è un giocattolo, basta aprire la finestra spalan- carla sul mondo e puoi giocare con la pietra, il bicchiere, il fischio di treno, la mela, la valigia, il sorriso…
Il giocattolo è il più potente campo d’esperienza immaginativa che abbia a disposizione il bambino per sollecitare la mente. D’accordo, ma se un bambino chiede come si fa a costruire un giocattolo? Che dire, che fare? Come si fa a dare indicazioni per fare una cosa concreta dove non è per- messo divagare fantasticando, secondo un principio di istruzione efficace? La cosa migliore sarebbe fare insieme, adulto bambino, nella concretez- za delle azioni fattive.

Come nella storiella che racconta di un bambino che portava un vaso di miele e del bambino più piccolo che lo tallonava senza lasciarlo nemme- no per un momento.
“Sembra proprio buono. Com’è?”

“Appiccicaticcio”.
“Questo lo vedo. Mi chiedevo di che cosa sa”.

“Ecco è dolce e liscio”.
“Dolce come la canna da zucchero o come una mela?”
“Più come la canna da zucchero ma in modo diverso”.
“Liscio come il burro o come il latte?”
Scocciato, il bambino con il miele ne prese una grossa ditata e lo cacciò nella bocca del bambino più piccolo. “Adesso chiudi la bocca e senti com’è da solo!”
Consci che è’ il linguaggio analogico quello che incide maggiormente nelle formazioni di una istruzione efficace, ma sollecitati a trasmettere in modi diversi la passione del costruire giocattoli, abbiamo deciso di cacciarsi nei guai preparando schede, formulari, e in seguito un manualetto di auto-costruzione. Abbiamo scoperto che la ricerca di modi di rappre- sentazione dei processi del fare, non è per niente semplice, il linguaggio umano è sempre in difficoltà quando deve descrivere le azioni fisiche. Come nelle istruzioni visive del fai da te, ci siamo messi a rappresentare più che recensire, preparando schede che riportano sequenze di costru- zione, le parti, i materiali da usare, le azioni connesse nominate e figura-

54 te. Far sentire l’intelligenza fattiva che c’è nelle operazioni del martellare, pinzare, inchiodare, ecc…Quindi il magazzino come spazio per la raccolta dei materiali, il riciclo e il bricolage.
Allo stesso modo di chi scrive ricette di cucina o insegna l’uncinetto, il manualetto è diventato un repertorio di schede empatiche illustrate, è diventato un esercizio complesso di retorica. Empatiche perché esprimo- no in figure simpatia e vicinanza per gli attrezzi, i materiali, le azioni e i bambini, retoriche perché il linguaggio è fatto di atti linguistici con una struttura dinamica, transitiva e pragmatica: bisogna trovare da dire, mettere in ordine, ornare, recitare, ricorrere alla memoria. Insomma saper dire. Fare un manualetto con istruzioni espressive su come costruire giocattoli, riconnette il mestiere tecnico all’immaginazione. Risultato: “Giocattoli creativi”, illustrato mirabilmente dal realismo fantastico di Vittorio Belli, prima edizione Macro edizioni di Cesena 1990, riedito da l’Editoriale scienza di Trieste 2012, 80 schede a colori di lavoro, decine di fotografie, un manifesto delle tecnologie semplici, due

mappe per il reperimento dei materiali, l’invenzione del personaggio Mastro Nocciola che sollecita, racconta invita a giocare.

Interrogati sul significato di quello che è stato fatto, ancora una volta ciò che maggiormente si è ritenuto fosse importante è stato invitare, solleci- tare, contagiare, promuovere, invitare all’auto costruzione, al fare con le proprie mani o con amici.

Nell’introduzione Gianfranco si diceva di mani affettuose.
“Osserviamo gli occhi dei bambini e delle bambine quando costruiscono
un giocattolo, quando ricevono un dono, quando un adulto li guida
all’uso e al gioco: brillano di intense emozioni. Questi oggetti sono il
porto dei loro sogni, l’origine delle più ardite fantasie e i suscitatori dei
più appassionati e contraddittori desideri di possesso.”
‘Ogni oggetto amato è il paradiso terrestre’, diceva Novalis. Ogni ogget-
to amato è ancora più amato se fatto con le proprie mani, se ha richie-
sto fatica e tempo, se è stato condiviso e costruito insieme a qualcuno,
se è fatto da mani affettuose.
Sappiamo che le mani sono i più efficaci strumenti per dare forma alla
realtà e ancora di più per formare il senso comune che ci aiuta a risolve-
re i piccoli e grandi problemi della vita di tutti i giorni. Sappiamo che è necessario addestrare le mani, imparare piano piano, capire che pazien- 55 tando si arriva a usarle in modo appropriato. Costruendo giocattoli que-
sto avviene naturalmente per tentativi ed errori, con la crescita delle competenze e nella piacevolezza di un’ attività che configura il piacere
del gioco. I bambini e le bambine dovrebbero usare le mani e avere a disposizione strumenti e tecnologie semplici fin dai primi anni di vita.”

Un mondo 10 giocattoli, 1000 combinazioni”

I giocattoli dei popoli e l’intercultura

Nel 1990 ho incontrato a Torino, alla prima biennale del gioco e del giocattolo organizzata dal C.I.G.I, Comitato Italiano Gioco Infantile, Giancarlo Perempruner, creatore del centro della cultura ludica di Torino. L’incontro è stato decisivo, e così pure il suo libro, “Ieri, giochi e domani”, con le proposte di costruzione di giocattoli a partire da quattro filoni fondamentali (scomodando Empedocle) il fuoco, l’acqua, la terra, l’aria.

La sua ricerca sul giocattolo povero, il suo lavoro pionieristico di riproposizione della costruzione dei giocattoli, la sua carica di scorbutica passione ci ha di fatto contagiati, ci ha costretto a “ripensare” il gioco e la tradizione. Da questo incontro è nata l’idea di una mostra sui 10 giocattoli più giocati, in realtà appunto una esposizione di giocattoli semplici, quelli più comuni che i bambini fanno in tutto il mondo senza sapere per- ché. Tali giocattoli sono nell’ordine: i burattini, l’aquilone, il gioco delle funicelle, il puzzle e il tangram, le macchinine e le biciclette, le bambole e il bambolone, il fischietto e gli strumentini musicali, il bilboquet. “Definire questi giocattoli è molto semplice: sono quelli con i quali hanno giocato per secoli quasi tutti i bambini, che per loro hanno costruiti i nonni, i padri e le madri, gli zii, i fratelli maggiori, non quelli prodotti dagli artigiani e dalle recenti e antiche industrie.

Moltissimi di questi trovano radici nella notte dei tempi, rappresentano il retaggio del nostro antenato più lontano, che divideva equamente la sua giornata tra l’attività di sussistenza e il gioco. I materiali impiegati sono sempre reperiti nella natura, terra, sabbia, pietra, flora e fauna, assembla- ti in molti casi con oggetti di scarto domestico e metropolitano. Tra questi ultimi meriterebbero un monumento, per meriti ludici: il rocchetto, del filo da cucito, le scatole di sardine, i cuscinetti a sfera, i cerchioni di bicicletta, i mestoli, i coperchi, le scatole di latta e cartone, le camera ad aria, il filo di ferro, le cassetta da frutta, ecc. Tali giocattoli, sembrano oggetti senza un apparente valore, roba fatta con scarti.” 2

Anche oggi tali scarti rappresentano per la maggioranza dei bambini di molte parti del mondo, per esempio in Africa, le materie prime per costruire e imparare. Paradossalmente la povertà dei materiale si ribalta in ricchissimi risultati inventivi, testimonianze di grande abilità. Dinanzi a questi giocattoli viene spesso la tentazione di dire che sono diversi dai giochi dei bambini di oggi, in realtà sono gli stessi dei nostri antenati, della grande maggioranza dei bambini di sempre, diversi soltanto perché non prodotti industrialmente ne pensati come merce.

Tratto dal libro Disegnare la vita. I mondi di GianfrancoZavalloni Ed. Fulmino 2013

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Pedalando indietro di 33 anni…il maestro Gianfranco

di Valentina Albertini e con i ricordi di Domenico Cassanelli

Io sono tra coloro che anni fa non conoscevano il poliedrico Zavalloni come dirigente, pedagogista, artista, scout e tanto altro…. per me lui è sempre stato il maestro Gianfranco.

Sono gli anni 1983/1984 quelli che collego in modo indelebile a un omone grande con la barba e gli occhialoni scuri che capitò nel nostro asilo della frazione di Budrio (Gambettola) e che ebbe la capacità di segnare per sempre la nostra memoria con gesti semplici.

Noi eravamo bimbi della scuola materna e lui, con la sua stazza, si faceva di certo ben notare: io lo vedevo come un gigante e forse per questo ne ero incuriosita e al tempo stesso un po’ spaventata. Noi bambini non ci mettemmo molto a capire che si trattava di un Gigante Buono, doveva esserlo per forza, pdalle sue mani grandi uscivano giochi, storie e personaggi strambi… erano i nostri primi burattini.

Molti di noi ricordano il maestro Gianfranco costruire fisicamente davanti ai nostri occhi il teatrino dei burattini, davanti al quale furono messi a terra dei materassoni verdi e blu dove noi bimbi potevamo sedere per assistere alle magie che solo il nostro maestro sapeva fare.

A volte partecipavamo alla costruzione dei burattini, magari colorandoli, spesso ce li faceva provare, ma nessuno capiva come lui fosse così bravo e dar loro vita dietro alla baracca.

La magia dei burattini è rimasta nel cuore dei bimbi che hanno conosciuto il maestro Gianfranco e, nonostante il tempo abbia offuscato i ricordi, per noi bimbi di Gianfranco, ora adulti, quegli anni sono indissolubilmente legati a lui.

I ricordi emergono a intermittenza: il numero di giocoleria che il maestro faceva con i mandarini dopo il pranzo, i preparativi per la festa di carnevale, le favole prima di andare a dormire e poi le sorprese…

Un giorno, aspettando il Natale, il maestro Gianfranco chiese a tutti i bimbi di disegnare il dono che avrebbero voluto da Babbo Natale. I disegni ovviamente furono molto vari: un compagno disegnò un martello, c’è chi invece disegnò una bicicletta. Quando arrivarono le feste natalizie il maestro aveva preparato il regalo giusto per ognuno di noi: un martello vero per il bimbo che lo desiderava, che venne usato per tutto l’anno per rompere i gusci dei pinoli delle pigne cadute nel giardino dell’asilo… e pensando a tutti i pinoli raccolti da terra, schiacciati e mangiati, vedo il delinearsi di quelli che saranno i “Diritti naturali di bimbi e bimbe”, con il diritto a sporcarsi giocando con la terra, il diritto a percepire il gusto degli odori offerti dalla natura, il diritto all’uso delle mani.

Con il maestro Gianfranco noi bimbi abbiamo davvero vissuto fino in fondo i nostri diritti naturali.

Fu invece più difficile esaudire la richiesta della bicicletta, ma il maestro non si fece cogliere impreparato: realizzò una piccola bici intagliata e sagomata su un sottile strato di compensato e la impacchettò come tutti gli altri doni… il bimbo che ricevette il regalo inizialmente fu deluso di non aver trovato una vera bici, ma presto si rese conto dell’unicità di quel dono, tanto da conservarla ancora oggi come un caro ricordo.

Eravamo bambini della materna ma avevamo capito che un altro maestro Gianfranco non l’avremmo mai più incontrato. Quando iniziammo la primaria il maestro ci venne a trovare a scuola ma non insegnò più nel nostro asilo né in quelli vicini e di lui perdemmo ogni traccia: l’omone con la barba e gli occhialoni scuri e i suoi burattini divennero parte fondamentale del nostro storico fino a diventare quasi una leggenda.

Poi accadde altro.

Nel 2005 la vita mi ha portato a contatto con alcune realtà teatrali locali. Doveva nascere un’associazione culturale che stimolasse il teatro all’interno delle scuole del Rubicone. Quell’anno mi propongono la gestione della segreteria dell’associazione e mi dicono che il presidente è un certo Gianfranco Zavalloni, dirigente delle Scuole medie di Gatteo. Quando me lo presentano sento addosso un misto di curiosità e paura e non capisco il perché. Inizio a lavorare seguendo le sue direttive ma sono spesso in ansia per la paura di sbagliare, e c’è qualcosa che mi sfugge di questo omone che parla con me ma intanto disegna… disegna ovunque: tratti neri su fogli bianchi che si mescolano agli appunti delle riunioni. Le idee che Zavalloni propone e che vorrebbe realizzare sono tante (spesso troppe!), alcune complicate perché contano sulla disponibilità e il buon senso delle persone mentre spesso ci scontriamo con persone poco collaborative.

In tutte le sue idee ritrovo qualcosa di diverso, alternativo, vagamente poetico, un tentativo di cambiare le cose: ogni cosa era una goccia che insieme ad altre gocce poteva migliorare il mondo della scuola, senza stravolgerlo o sconvolgerlo ma LENTAMENTE, passo dopo passo, goccia dopo goccia.

Spesso però era come lottare contro i mulini a vento, perché molti non vedevano quello che vedeva lui e sicuramente non avevano i suoi stessi scopi.

Ad ogni modo per diverse settimane lavorai ad alcuni progetti continuando a dargli del “lei” mentre mi convincevo sempre di più che questo Zavalloni era il dirigente meno Dirigente che io avessi mai visto, fino a che l’imprevedibilità della vita mi sorprende. In modo occasionale, e particolarmente ironico, scopro che il dirigente Zavalloni altro non è che il maestro Gianfranco!! Allora tutto prende forma e acquista un senso: passano le paure e arriva la consapevolezza che sto facendo qualcosa di speciale, qualcosa che porto ancora con me insieme al suo ricordo.

Oggi penso che deve esserci un motivo per aver incontrato sui miei passi il gigante buono che mi aveva affascinata da bambina e che ancora oggi ha una grande influenza nel modo di educare le mie figlie.

Oggi nel mio lavoro capita spesso che qualcuno mi chieda chi era Zavalloni: per me resterà sempre il maestro Gianfranco.