Alberto Manzi e l’America Latina Dalle Ande all’Amazzonia
PREMESSA - Il mio incontro con Alberto Manzi - Non ho avuto la fortuna di conoscere di persona il maestro Alberto Manzi. Nonostante ciò mi avventuro nella scrittura di questa riflessione sull’onda della incredibile emozione che ho provato, in questo ultimo periodo, nel riscoprire la grande figura di un educatore, passato troppo presto in sordina, e nello scoprire aspetti inediti della sua personalità. Credo però di avere apprezzato e avere conosciuto il suo stile didattico per i tanti “incontri indiretti” che ho avuto nel corso dei miei trent’anni di scuola come docente e dirigente scolastico. In tutto questo, devo confessare, un ruolo decisivo lo giocano le “coincidenze” e i “parallelismi” fra la mia esperienza e quella di Alberto Manzi. Prima di tutto l’esperienza fra i popoli indigeni delle Ande del Sud America ed in particolare nel Perù. Forse è stato un puro caso se nell’estate del 1982, e in alcune estati successive, non ci si sia incontrati in quelle terre, dove sia Alberto e sia io eravamo impegnati in attività di volontariato.
All’inizio degli anni ’80, quando la mia carriera da maestro era appena cominciata, lessi di Alberto Manzi su un rotocalco. Ricordo perfettamente che l’articolo parlava del suo rifiuto di apporre nella pagella un “giudizio di valutazione” e della conseguente sanzione disciplinare con sospensione dello stipendio. La stima per Manzi “collega” (di cui, negli anni dell’adolescenza e giovinezza, non sentii più parlare) fu subito immediata. Io, da posizioni “nonviolente” insieme ad un collega “anarchico” avevamo da poco rifiutato di pronunciare la “promessa solenne” e il successivo “giuramento” e per questo eravamo in un sorta di limbo. Di lì a pochi mesi, se avessimo persistito nel nostro rifiuto, saremmo stati licenziati. Ma sono stato educato all’idea che il mondo possa migliorare e le leggi possano essere cambiate. È così che grazie anche al sostegno del Presidente Pertini, il giuramento per gli insegnanti, proprio in coerenza col dettato costituzionale, fu abolito nel giro di poche settimane.
Anche Alberto Manzi credeva in queste battaglie ideali, in cui l’intelligenza dell’uomo e l’accresciuta consapevolezza può favorire leggi e normative più “a misura umana”.
Nella mia esperienza scolastica trovo quindi molte affinità con quella di Alberto Manzi e nell’accingermi ad affrontare il tema “Manzi e l’America Latina” suddivido il mio contributo basandomi su 4 pilastri che posso così sintetizzare:
1. SCUOLA E DIDATTICA
2. TELEVISIONE E COMUNICAZIONE
3. LIBRI E DOCUMENTAZIONE
4. AMERICA LATINA E INTERCULTURA
SCUOLA E DIDATTICA - Priorità dell’esperienza didattica rispetto alle teorie pedagogiche - Mario Lodi, Don Lorenzo Milani, Margherita Zoebeli, Giovanni Catti, Gianni Rodari, Danilo Dolci, Aldo Capitini, Otello Sarzi, Federico Moroni, Bruno Ciari, Loris Malaguzzi, Bruno Munari, e naturalmente lo stesso Alberto Manzi. Maestri nati a cavallo fra la prima e la seconda guerra mondiale. La loro storia è quella di chi ha studiato negli Istituti Magistrali che dovevano prepararsi ad “italianizzare” l’Alto Adige, da poco “redento”. Le magistrali erano allora l’unica scuola superiore gratuita per gli studenti, poiché lo stesso Duce, che per l’appunto era maestro, a suo tempo le aveva frequentate. Ma è da quella generazione che nascono poi gli insegnanti del secondo dopoguerra che fondano il loro lavoro non tanto sulle teorie pedagogiche, quanto sui valori concreti della Costituzione. Con loro si respira un nuovo clima. Sono anni carichi di sperimentazioni e si producono riflessioni pedagogiche che possiamo sicuramente ricondurre alla cosiddetta “scuola attiva”. Nessuno di loro si rifà ad una teoria filosofica o pedagogica. Tutti “fanno esperienza sul campo”, poi riflettono, scrivono, documentano, divulgano. Manzi ha forse un’opportunità in più: la televisione, quella nascente, quella dei primi anni. E la usa in maniera efficace, sperimenta modalità sconosciute di comunicazione. Il suo stile è quello del grande comunicatore, nonostante allora i mezzi e gli effetti multimediali fossero limitati rispetto alle potenzialità tecnologiche odierne. Per questo suo sperimentare ciò che nessuno aveva fatto fino a quel momento con il mezzo televisivo, diviene poi un “esperto” e scrive come autore innumerevoli sceneggiature. Di molte di queste ne è anche regista e conduttore.
TELEVISIONE E COMUNICAZIONE - Uso della comunicazione visiva con particolare attenzione al disegno - Manzi era un grande comunicatore. Era forse una dote spontanea? Non saprei dare una riposta. Di sicuro il suo modo di comunicare è di grande efficacia. Possedeva la tecnica tipica dell’uomo di teatro: unire parola e immagine. Poche parole, ben calibrate, per esprimere un concetto. Lo stesso concetto ripetuto con altre parole, per attrarre chi non ha per un attimo ascoltato e per permettere a tutti di fissarlo con attenzione. Poi lo stesso concetto viene illustrato e descritto con l’immagine. Una immagine che usando gessetti di carboncino nero, viene a formarsi progressivamente, su un grande foglio bianco da pacchi, fino a comparire nella sua chiara interezza solo alla fine. Una tecnica raffinata, veloce ma efficace. Pensavo al modo di disegnare di Alberto Manzi quando, nel giugno del 1979, mi accinsi a sostenere la prova di disegno all’esame “da privatista” di licenza nell’Istituto Magistrale di Forlimpopoli. Quella tecnica mi affascinava e quella tecnica mi ha accompagnato nei tanti anni da maestro di scuola materna. Incantare i bambini e le bambine raccontando storie, fiabe e piccoli racconti, accompagnandoli con le immagini che man mano si venivano a formare.
LIBRI E DOCUMENTAZIONE - Amore per la parola come strumento primo di emancipazione - Alberto Manzi conosceva molto bene il significato di “analfabetismo”. Un analfabetismo che mi piace definire “primario”: di chi cioè sa parlare e comunicare nella propria lingua familiare, ma non sa “leggere e scrivere” nella lingua della propria comunità nazionale, dove è di casa il “noi”. Alberto Manzi sa che sapere leggere e scrivere pone le persone ad un livello minimo di dignità. Possedere la parola in tutti i suoi aspetti permette di pensare con la propria testa, permette loro di migliorare la propria coscienza, permette di fare scelte in libertà. In quegli anni, quando ancora le cifre dell’analfabetismo si calcolano in milioni, c’è un altro maestro in Italia che si batte quasi esclusivamente per questo: dare la parola ai senza parola. É don Lorenzo Milani, nella sua piccola scuola parrocchiale di Barbiana. E per Manzi l’alfabetizzazione non è solo una questione italiana, ma un fatto universale, di tutti i popoli della terra. Lo sperimenta di persona quando si reca per la prima volta, come ricercatore in biologia, in America Latina. Sono più che mai convinto che, pedagogicamente parlando, una delle maniere per prendere coscienza, per avere una visione nuova su un problema, sia “viaggiare”. Spostarsi fisicamente da un luogo ad un altro modifica le proprie percezioni, diventa un fatto che incide e acquisisce valore pedagogico. E da quel momento Manzi è diverso. Emblematica è la risposta che dà a proposito della scrittura: “Mi chiede perché scrivo. Potrei dare risposte diverse. E forse sarebbero tutte vere e nello stesso tempo tutte false. Non so perché scrivo… Forse perché vivo. O lei vuole sapere perché affronto certi temi? In questo caso la risposta è più facile: voglio far sorgere nei giovani la coscienza dei problemi (coscienza, non solo conoscenza), far sapere loro che esistono certi problemi e che ognuno di noi è chiamato a risolverli. In fondo scrivo perché sono un rivoluzionario, inteso nel senso profondo della parola. Per cambiare, per migliorare, per vivere pensando sempre che l’altro sono io e agendo di conseguenza, occorre essere continuamente in lotta, continuamente in rivolta contro le abitudini che generano la passività, la stupidità, l’egoismo. La rivoluzione è una perpetua sfida alle incrostazioni dell’abitudine, all’insolenza della autorità incontestata, alla compiacente idolizzazione di sé e dei miti imposti dai mezzi di informazione. Per questo la rivoluzione deve essere un evento normale, un continuo rinnovamento, un continuo riflettere e fare, discutere e fare”.
Nel cercare di avvicinarmi in profondità alla figura di Alberto Manzi ho scoperto, qui in Brasile, Padre Savino Mombelli, un missionario della congregazione dei saveriani, che vive a Belem nello stato del Pará. Gli chiedo di inviarmi notizie. Mi risponde con una bellissima lettera e scopro così un’altro aspetto della vita di Manzi e che me lo fa sentire ancora più vicino. È dal 1986 che collaboro ininterrottamente con la Rivista CEM Mondialità ed ora scopro l’esistenza di una lunga collaborazione dello stesso Alberto Manzi alla rivista.
Nella lettera Padre Savino racconta che «Passai al CEM una decina d’anni inframmezzati da una specie di vacanza e prima avventura in Amazzonia fra il ‘66 e il ‘67. Tra il ‘68 e il ‘71 decisi di cambiare le carte in tavola facendo si che il CEM (Centro Educazione Missionaria) diventasse Centro Educazione Mondialità, quando il termine mondialità non si trovava ancora nei dizionari della lingua italiana. Conobbi Alberto Manzi a Roma nel ‘63. Abitava dalle parti di Piazza Bologna (fra la Nomentana e la Tiburtina) e fu lui che ci aprì la strada per mettere il CEM e la sua ideologia a disposizione dell’AVE (la casa editrice della Gioventù Italiana di Azione Cattolica che aveva sede a Roma presso la Domus Pacis) nella realizzazione di testi scolastici che contenessero un orientamento cristiano universalista. A Roma nel ‘64/’65 pubblicammo un’antologia per la scuola media con racconti e poesie di tutti i paesi del mondo. L’antologia “Il mondo è tutto mio” fece un grande successo ma non come vendite. Fece un grande successo nel senso che venne copiata e scopiazzata da tutti gli editori scolastici italiani, preparando l’arrivo di una nuova scuola italiana e di una nuova Italia, quell’Italia che a causa della Lega e di altre forze restringenti stenta ad affermarsi nei nostri giorni. Tra il ’63 e il ’64 Alberto era un divo della televisione a causa di “Non è mai troppo tardi” e si trovava, senza volerlo, totalmente d’accordo con la nostra tendenza alla mondialità. Alberto, come ti dicevo per telefono, si reggeva sugli stessi principi e motivazioni che erano stati di don Milani a Barbiana e, in seguito, saranno di Paulo Freire educatore brasiliano espulso dal paese durante la dittatura fascista (‘64/’84) perché nemico dell’insegnamento tradizionale borghese al cento per cento. Però l’insegnamento di Alberto non era ideologico come quello di Don Milani e di Paulo Freire. Era un insegnamento da maestro di paese, tanto semplice quanto adorabile. Direi che Alberto passava più vicino a San Francesco che ai due grandi da poco citati. Presso la televisione di Via Mazzini a Roma c’era un gruppo che lo odiava e che faceva di tutto per sostituirlo con proposte didattiche astruse e complicate. Ci riuscì, mi pare, soltanto negli anni ‘70/’80 assumendo maestri dalla cultura farraginosa e ingombrante di tipo patriottardo e fascista. Ai miei tempi (anni ‘60) i libri di Alberto erano venduti in tutta Italia ed erano usati nelle scuole elementari e medie. Riguardavano le scienze naturali – fisica, botanica, biologia, e prima ancora, le letture. “Orzowey” parlava di un ragazzo italiano che aveva incontrato un amico nel cuore dell’Africa, mentre la “Luna sulle baracche” era ambientato in America Latina, nella periferia di una grande città peruana. ….All’editrice Ave lavorava con noi, e prima di noi, Domenico Volpi già direttore de “Il Vittorioso”. Alcuni incontri annuali del CEM li facevamo insieme: io con Alberto e Domenico. »
AMERICA LATINA E INTERCULTURA - Attenzione ai poveri e diseredati - Del rapporto fra Alberto Manzi e l’America Latina poco si conosce. Lo si pensa in televisione, lo si pensa fra i suoi alunni della sua scuola, lo si pensa come Sindaco di Pitigliano negli anni precedenti la sua morte. Ma è dal 1955 (quindi 5 anni prima di iniziare il suo impegno in televisione) che Manzi sistematicamente, durante l’estate, si reca in Sud America. La prima volta in Amazzonia, per una ricerca con l’Università di Ginevra. Poi nasce la grande passione: i “popoli nativi”. La loro situazione sociale è priva di emancipazione. Una condizione che li rende poveri in tutti i sensi, soprattutto a livello culturale, incapaci di organizzarsi, di rivendicare i loro diritti. Mancava loro la capacità di “leggere e scrivere”. Nei suoi soggiorni estivi dedicati, quindi, a questa azione che possiamo definire di “volontariato culturale”, Manzi si muove tra l’Ecuador, il Perù, la Bolivia (luoghi che diverranno poi gli ambiente di vita dei personaggi dei suoi romanzi), la Colombia e il Brasile. In questi paesi, nei quali si reca a volte con gruppi di studenti universitari volontari, conosce persone che diverranno riferimenti importanti della sua vita. “Si tratta innanzi tutto di Padre Giulio Pianello (incontrato nella Amazzonia peruviana), con il quale avrà rapporti fino alla morte, salesiano mandato come punizione per avere tentato di alfabetizzare gli indios e per avere denunciato dal pulpito gli abusi delle multinazionali, a convertire una tribù nel cuore della selva, dove Manzi lo incontra per la prima volta”. (Cfr Breggia, 2008-2009, p.1) E poi altri, dal guerrigliero Hernàn a missionari come Padre Juan Pablo e Padre Rodas. Nel romanzo “E venne il sabato” (Edizione Gorée, Iesa -Siena, 2005) questi amici diverranno i protagonisti, insieme all’autore stesso, personificato nella figura dello straniero. Qui viene fuori un'altra caratteristica di Manzi: i suoi romani non sono pura invenzione, sono tratti dalla realtà vera, concreta, con la quale lo stesso si confronta. E così sposa “La Teologia della Liberazione” e partecipa attivamente alla liberazione di prigionieri politici. Lui stesso viene tenuto prigioniero in Bolivia per un mese, dopo essere stato arrestato per avere difeso una ragazza che veniva selvaggiamente picchiata dalla polizia locale. Viene torturato, come ha confermato la moglie stessa, così come era stato torturato Padre Giulio al quale avevano spaccato le mani per aver insegnato a scrivere alle popolazioni indigene…” (Cfr. Breggia, 2008-2009, p.2).
Le vicende latinoamericane di Manzi sono spesso condite di avventure. Accusato di estremismo (siamo negli anni in cui agisce Che Guevara, che una volta ucciso in Bolivia, nell’ottobre del 1967, aleggerà come un fantasma per i regimi militari dittatoriali) è ritenuto da alcuni governi scomodo e quindi “non gradito”. Ma il suo rapporto con le missioni salesiane e l’avere utilizzato l’espediente di passaporti falsi, gli permette di rientrare fino al 1984, ultimo anno della sua vicenda latinoamericana da volontario. È solo forse per caso che non ci si sia incontrati. Nel 1982 sono stato 6 mesi in Perù, sull’altipiano delle Ande, vicino al Lago Titicaca, in mezzo a popolazioni “quechua”. La mia ricerca mirava alla raccolta di materiali, esperienze e documentazione circa le tecnologie popolari, usate dai “campesinos”. Ed è sullo stesso materiale antropologico che Manzi lavora, aiutato dagli scritti di Josè Maria Arguedas e Manuel Scorza. Realtà, da una parte, narrate e conosciute attraverso i libri e, dall’altra, sperimentate e vissute “sul campo”. Da queste esperienze nasceranno i suoi romanzi, centrati spesso su figure emblematiche del “mondo andino” o sudamericano, come ad esempio i lavoratori del caucciù, o i “vagabondi-senza casa”. Un esempio chiaro di ciò è il romanzo “El loco”, che in spagnolo significa pazzo, fuori di testa, scemo. Il romanzo è ambientato nel villaggio andino di San Sebastian, dove “el loco” è fra i pochi a sapere scrivere e leggere che insegnerà poi ad Antonietta. Sarà Antonietta che a San Sebastian darà vita alla rivoluzione contro la compagnia mineraria che vuole comprare le terre della comunità, terre che erano distribuite alle singole famiglie secondo un antico sistema comunitario di rotazione. Un tipico esempio che ci dice come Alberto Manzi conoscesse perfettamente i sistemi sociali in uso nelle comunità andine e che anch’io ho avuto occasione di scoprire e approfondire attraverso la mia tesi di laurea, dal titolo emblematico “Dagli Appennini alle Ande: le tecnologie appropriate come sistemi di trasformazione sociale”.
LA MEMORIA DI ALBERTO MANZI IN AMERICA LATINA - Avere portato in Brasile la mostra “Alberto Manzi - Storia di un maestro” realizzata dal Centro Alberto Manzi del Consiglio Regionale della Emilia Romagna, averlo tradotto in portoghese (4), ci offre oggi l’opportunità di iniziare un lavoro di ricerca. Capire quali sono i segni che Manzi ha tracciato in mezzo ai popoli di questo immenso continente. Fra le realtà a cui Manzi contribuisce con un apporto significativo, c’è l’Argentina. Nel 1987, pochi anni dopo la caduta della dittatura dei generali, è chiamato a tenere un corso di formazione. 60 ore, distribuite in 15 giorni, per formare docenti universitari che sarebbero poi andati ad elaborare il “Piano Nazionale di Alfabetizzazione” sul modello di “Non è mai troppo tardi”. L’Argentina sarà premiata, nel 1989 dall’UNESCO, per il miglior programma di alfabetizzazione adottato in America Latina. Stiamo coinvolgendo in un lavoro di ricerca e di memoria la Società Dante Alighieri di Buenos Aires (una delle più grandi al mondo) per ritrovare testimonianze e documentazioni sull’apporto di Manzi. E così ci auguriamo accada per gli altri paesi in cui il maestro Alberto Manzi ha operato. È solo l’inizio di una ricerca.
Gianfranco Zavalloni
Dirigente Scolastico dell'Ufficio Scuola e Cultura
Consolato d’Italia di Belo Horizonte in Minas Gerais - BRASILE
Riferimenti bibliografici
Braggia M. (Anno Accademico 2008-2009), Alberto Manzi e l’America Latina: esperienze di vita e influssi letterari - Tesi di laurea di per la Facoltà di lettere e filosofia - Università di Siena.
Manzi A. (1956), Orzowey, Firenze, Casa Editrice Vallecchi
Manzi A. (1974), La luna sulle baracche, Firenze, Casa Editrice Salani
Manzi A. (2005), E venne il sabato, Iesa -Siena, Casa Editrice Gorée
Manzi A. (1979), El loco, Firenze, Casa Editrice Salani
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